App Immuni, nessuno ha ancora capito se serve davvero

Come funziona? E, soprattutto, a cosa serve? Dovrebbero essere queste le due domande principali sull’app Immuni. Le risposte per entrambe non sono state così soddisfacenti. Salvo rare occasioni. «Traccia i nostri contatti con le persone contagiate», è stato il massimo raggiunto nei chiarimenti. Solo che ci sono aspetti tutt’altro che secondari. Primo: devo avere uno smartphone. Secondo: devo aver scaricato nello smartphone l’app in questione (e c’è la base volontaria, nessun obbligo di legge). Terzo: visto che l’app traccia i nostri eventuali contatti con gli eventuali contagiati, devo avere il Bluetooth attivo, perché funziona con questa tecnologia.

Detto che tra cuffie, smartwatch e quant’altro, è assai difficile che il Bluetooth del nostro smartphone non sia acceso, non si può però dare altrettanto per scontato che lo sia sempre, a ogni ora del giorno. Magari, anche dentro un supermercato. E poi, anche qualora il mio Bluetooh fosse acceso e visibile, non è certo che succeda altrettanto per il ’dente blu’ dell’apparecchio di chi ho incrociato. Quindi, quante probabilità, nonostante le rassicurazioni governative, ci sono che l’app sia lo strumento nell’ormai famigerata Fase 2 per mantenere bassi i contagi? Aggiungiamoci che il 66% degli italiani, magari anche con un paio di esemplari in casa, possiede uno smartphone e il resto non ce l’ha. La platea si restringe. E si restringe ulteriormente perché, secondo le previsioni, per essere realmente efficace almeno il 60% di noi (c’è chi si spinge fino al 70% come soglia utile) dovrebbe scaricare Immuni. Ed è un azzardo scommettere che lo facciano proprio tutti.

Detto tutto questo, il dibattito sull’app in Italia si è concentrato quasi esclusivamente sulla privacy. E forse si è anche accartocciato sull’argomento. Dal momento che, con sanissimo realismo, dobbiamo ammettere che, per quante precauzioni possiamo prendere, i nostri dati, le nostre interazioni, i nostri gusti, le nostre abitudini, non saranno mai così ’private’. Un algoritmo, anche senza bisogno di geolocalizzazione, mostra inevitabilmente tutte le impronte che abbiamo lasciato sul web. Il modello decentralizzato, utilizzato dall’app Immuni, dà sicuramente maggiori garanzie sulla protezione dei dati personali. Ma il punto è un altro, soprattutto dopo questi mesi di lockdown: siamo disposti a rinunciare anche a un pezzetto della nostra privacy per proteggere la salute pubblica? Sì, solo se avessimo la certezza che serva. E questo è un caso in cui quella certezza non c’è.