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Quarant’anni senza GillesLeo Turrini - 15 aprile 2022

Quaranta anni fa, in un pomeriggio di aprile, iniziò l’agonia di Gilles Villeneuve.

Chi c’era e ha l’età per ricordare, non ha mai dimenticato quel pilota così raro, se non unico.
Io e Mazgiorg andavamo alle reti di Fiorano solo per vederlo da vicino.

Chi ha la fortuna di essere nato dopo, magari Gilles lo ha solo sentito nominare, oppure sa che era il padre del mio amico Jacques, campione del mondo nel 1997.

Ho voluto rievocare la figura di un personaggio a me tanto caro conversando con Piero Ferrari, il figlio del Drake.

Sotto pubblico il testo dell’intervista, che appare oggi sulle colonne del Resto del Carlino, della Nazione e del Giorno.

Buona Pasqua a tutte e a tutti.

 

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“Gilles Villeneuve era puro istinto. Per lui guidare una motoslitta sulla neve o una Formula Uno sull’asfalto non faceva differenza. Si sarebbe comportato allo stesso modo al volante di un trattore o di una utilitaria…”
Piero Ferrari è uno degli uomini più ricchi d’Italia: solo il dieci per cento di sua proprietà della azienda di Maranello vale in Borsa più di quattro miliardi di euro. Prossimo ai 77 anni di età, il figlio del Drake rimane fedele al Dna di famiglia: la passione per i motori e per le corse.
“Villeneuve ci lasciò quaranta anni fa -ricorda con un sospiro il vicepresidente della casa del Cavallino- Mi fa piacere che a distanza di tanto tempo ancora si serbi memoria di lui”.
Umanamente Gilles che tipo era?
“Non aveva un carattere facile. Era scontroso, abbastanza chiuso. Per dire, io che all’epoca seguivo molto da vicino i Gran Premi legavo di più con il suo compagno di squadra, il sud africano Jody Scheckter”.
Che nel 1979 vinse il titolo iridato anche grazie all’aiuto del canadese.
“Sì, Villeneuve fu molto leale. Era diventato amico di Jody, si volevano bene. Quando ci fu la tragedia, nel 1982, Scheckter era ormai un ex pilota. Ma dal Sud Africa si spostò in Canada per tenere l’orazione funebre”.
Piero, lei sa che secondo una tenace leggenda metropolitana fu il tradimento di un altro compagno in Ferrari, il francese Pironi, ad innescare le dinamiche che portarono al disastro di Zolder…
“Aspetti, ora le spiego. Intanto chiariamo che in Belgio Gilles trovò la morte per una stupida fatalità, una collisione in prova con l’auto del tedesco Mass…”
Sì, ma si dice che il canadese fosse ancora esasperato per quanto accaduto due settimane prima a Imola.
“Io c’ero, a Imola. Quando le due Ferrari rimasero in testa alla gara, con Villeneuve al comando, dal muretto esponemmo il cartello che invitava i piloti a mantenere le posizioni”.
A non farsi la guerra, insomma.
“Esatto. Ma Pironi poi mi raccontò che Gilles aveva commesso un errore in pista, lui si ritrovò davanti e non si sentiva obbligato a restituire la posizione al collega”.
Villeneuve si infuriò.
“Sì, chiese e ottenne un colloquio con mio padre. Che gli rispose così: ti capisco umanamente, ma a Imola la Scuderia ha firmato una doppietta, non posso rimproverare il tuo compagno per avere vinto”
L’auto viene sempre prima di chi la guida.
“Sempre, è un insegnamento di papà che ritengo ancora valido”.
Ma Gilles non era un autista come gli altri.
“Infatti ce ne accorgemmo subito”.
Come arrivaste a lui?
“Nella tarda estate del 1977 Niki Lauda ci salutò all’improvviso”.
Brutta botta.
“Beh, l’austriaco era un grandissimo. Mio padre ci rimase male e pensò addirittura di andare a prendere James Hunt”.
Il rivale di Niki, anche nel bel film Rush.
“Lui, ma Hunt pensava solo alle donne e non se ne fece niente. Scheckter non era libero e allora a papà venne in mente un vecchio amico neozelandese”.
Chi?
“Chris Amon. Aveva corso per la Ferrari negli anni Sessanta. Era stato lui a raccontarci che in Canada c’era un matto velocissimo. E lì scattò la molla”.
Tradotto?
“Mio padre credeva nella intuizione. Inoltre a quasi ottant’anni gli piaceva dimostrare al mondo che lui sapeva plasmare un pilota, fare di uno sconosciuto un campione”.
Funzionò.
“Non subito. Gilles arriva, va in pista a Fiorano e dopo cinque giri fumava tutto. Un delirio! Alla prima gara vera in Giappone fu coinvolto in un incidente spaventoso, ci furono morti e feriti tra il pubblico”.
Immagino le critiche.
“Immagina bene. Papà venne trattato quasi come un rimbambito!”.
Ma tenne duro.
“Ebbe solo un attimo di incertezza nel 1978. Villeneuve infilava un botto dopo l’altro. Mio padre disse: Scheckter finalmente viene, ci teniamo l’argentino Reutemann che è già in squadra e Gilles lo mandiamo a fare esperienza in un Team minore. Solo che…”
Solo che?
“Convochiamo un pomeriggio di settembre i due piloti a Fiorano. Papà deve far firmare il rinnovo all’argentino al piano di sotto e io al piano di sopra debbo spiegare a Gilles che futuro lo aspetta. Lei ci crede alle sliding doors?”
Le porte che ti cambiano il destino.
“Quelle lì. Insomma, Reutemann informa mio padre che se ne va, alla Lotus. Allora papà scaraventa su per le scale Franco Gozzi, il suo segretario. Che si precipita nella mia stanza e stando alle spalle di Gilles si mette a farmi strani segni. Io per fortuna ancora dovevo iniziare a parlare, ho capito e ho annunciato a Villeneuve che eravamo felici di confermarlo”.
Strana nascita di una leggenda.
“Esatto. Un mese dopo lui vinse il primo Gp nel suo Canada, la gente smise di criticarlo e presto tutti si sarebbero innamorati di lui. Tranne il meccanico della sua Fiat 131”.
Prego?
“Gli avevamo dato una 131 per gli spostamenti tra Modena e Maranello. Lui la tirava sempre al limite. Poi faceva chiamare il meccanico, che disperato mi telefonava per dirmi: non so cosa faccia questo canadese alla macchina, io dopo 50 metri resto a piedi e debbo chiamare il carro attrezzi…”
Piero, fosse vissuto Gilles avrebbe mai vinto un mondiale?
“Onestamente non lo so. Gliel’ho detto, era istinto puro, non faceva calcoli. Ma era formidabile e non a caso mio padre fece quel paragone”.
Con Tazio Nuvolari.
“Un onore che Enzo Ferrari ha concesso solo a Gilles Villeneuve”.