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Pelé e SchumiLeo Turrini - 31 dicembre 2022

Proclamo, a mio insindacabile giudizio, Cloggari dell’anno, ex aequo, Drake e URUK.
Ringrazio quanti sono transitati di qui, anche senza intervenire, nel 2022.
Per me ferrarista è stata un’altra stagione zero tituli: purtroppo, ancora non mi sono abituato.
Occupandomi di Pelé in questi ultimi giorni, ho recuperato frammenti di memoria legati a Schumi.
Nove anni fa, oggi, feci un viaggio triste lassù in Francia, per sentirmi dire qualcosa che mai avrei voluto ascoltare.
Michael ha sempre avuto una grande passione per il pallone. Lo praticava, al punto da tesserarsi per una squadretta Svizzera di terza categoria. Montezemolo temeva sempre potesse scassarsi una caviglia. Non accadde: nel 1996, prima del Gp di Germania, Schumi si fratturò una costola, ricadendo male in area di rigore. Al presidente nulla fu detto, se non dopo la corsa…
C’ero quando Michael incontrò per la prima volta Pelé. Fu un momento emozionante per entrambi.
Sotto il testo mio apparso su Carlino Nazione Giorno dedicato alla pagana Trinità del football.
Buona lettura e buon anno a tutti.
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Se non altro, O Rey ha avuto il tempo di vedere la consacrazione definitiva, mondiale!, del suo ultimo erede, Leo Messi. Perché non c’è dubbio: chi considera il calcio alla stregua di una religione pagana, beh, ha la sua Trinità.
Pelé. Maradona. Infine e appunto, Messi. Tutti sud americani, tutti espressione di una Anima Latina che si identifica nel pallone che rotola. E lasciamo stare la contrapposizione, persino filosofica, tra brasiliani e argentini: quei tre, con una sfera tra i piedi, in realtà mai hanno avuto un passaporto. Appartengono alle plebi di ogni continente e di ogni generazione. Sono idoli planetari: amati ovunque, adorati per la loro genialità. Pelé, Maradona e Messi ci stanno nel cuore per un motivo semplice semplice: hanno incarnato, incarnano il calcio dei bambini. Venivano dalla strada, dai campetti pieni di buche, talvolta persino da un disagio esistenziale. E tutti hanno superato ogni ostacolo, perché il Dio del football si è specchiato nel loro talento.
Ma chi è stato il più grande, tra i Tre? Lo so, lo so. È la classica domanda da bar, eppure ce la siamo posta almeno una volta, davanti a un caffè o a tavola per il cenone di Capodanno. Dunque, non mi sottrarrò.
Pelé è stato l’eroe assoluto della televisione in bianco e nero. Il Mondiale che ne rivelò la straordinaria abilità pedatoria fu quello disputato in Svezia nel 1958. Il primo trasmesso dalla Rai. Pochi italiani avevano la tv in casa, andavano proprio nei bar a seguire il Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno. Ma tra un quiz e l’altro spuntò quel ragazzino dalla pelle scura. Faceva, il giovanissimo Edson Arantes do Nascimiento, cose meravigliose. Il colore che ancora non c’era sul piccolo schermo idealmente lo portò lui. Con la fantasia che era un inno alla libertà. Voglio dire questo: non per caso Pelé alza tre volte la Coppa in un mondo, a cavallo fra fine anni Cinquanta e alba degli anni Settanta, che sta dimenticando l’orrore della guerra e coltivando le illusioni che non dureranno: John Kennedy, i Beatles, Neil Armstrong sulla Luna…
Poi si arriva a Maradona. Cioè si passa dal misticismo ascetico del brasiliano figlio delle favelas alla tracotante esuberanza di Diego Armando. Scusate, cosa fu il Pibe de Oro se non l’esaltazione, persino sfrenata, del delirio ludico? El Diez non si vergognava di avere segnato un gol con un pugno, pur di eliminare gli odiati inglesi. Scomodò la Mano de Dios e contemplandone l’immenso talento tutti ci adattammo a riconoscerne la sfrontatezza. E attenzione, non sto dicendo che Pelé sia stato eticamente, moralmente superiore a Maradona: non è questo il punto. Banalmente, era cambiata la sensibilità collettiva. Il bianco e nero della televisione era un invito alla compostezza, alla educazione, al rispetto delle regole. Dieguito, simbolo a colori, è stato un gigante: anche e purtroppo, nell’infischiarsene delle regole.
Infine, è arrivato Messi. Sui nostri schermi piatti, sulle app, sulla trasmissione in streaming delle partite. È arrivato, Leo, dalla stessa Argentina di Maradona, subendo per anni e anni l’ossessione di un paragone continuo, asfissiante, doloroso. Qualunque prodigio combinasse Messi sul campo, sempre saltava su qualcuno a dire: ah, però Diego ha vinto il mondiale…
In Qatar, il terzo pilastro di questa collettiva divinità calcistica ha chiuso i conti. La Coppa l’ha alzata anche lui e forse la pianteremo con la tendenza a sminuire la Pulga, la Pulce, il Fenomeno vero di un calcio 4.0, cioè velocissimo.
E allora, direte voi, a che conclusione arriviamo? Saluterò con la risposta: anche nella religione pagana chiamata calcio, la Trinità è una.
E indivisibile.