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Omaggio a Paolo Rossi, ferrarista per casoLeo Turrini - 10 dicembre 2020

Fermiamo i nostri respiri per Pablito.
Ah, Rossi!
L’idolo della mia adolescenza e della giovinezza.
Lo incontrai per la prima volta a Carpi ad una premiazione, lui giocava ancora in serie B, nel Vicenza.
Parlavano già tanto di lui. Era timidissimo. Magro, pallido, dalla andatura un poco sbilenca.
Ah, Rossi.
Dovevamo rivederci in questo autunno, lo avevano invitato a presentare il mio libro sulla famiglia Panini, in Umbria. Il virus ha bloccato tutto e purtroppo, senza che io lo sapessi, doveva essere già malato.
Penso sia stato il testimonial perfetto di una Italia, intesa non solo come Nazionale, che disperatamente voleva rimettersi in piedi.
Chi c’era lo sa. Furono gli Azzurri di Bearzot, idealmente, a mandare in archivio gli Anni di Piombo. Con il trionfo Mundial del 1982. Ma già quattro anni prima, in Argentina nel 1978, nell’onda lunga del dopo Moro, quei campioni avevano giocato benissimo.
E poi a me piaceva il modo entusiasmante in cui Rossi si era ribellato alla amarezza di uno stop, per storie di scommesse, durato addirittura due anni.
Lui pensava di aver subito una tremenda ingiustizia. Segnò tre gol al Brasile e la chiuse lì, da campione del mondo anche nello stile, nella educazione.
Pablito era un tifoso, distratto, della Ferrari. Ogni tanto ci era capitato di parlarne e io gli dicevo: ah, se bastasse la tua frase di ringraziamento a Bruno Conti dopo un assist Mundial, “basta spingerla “, dicevi riferendoti alla palla.
Ti rispondevo: appunto, anche la Ferrari basta spingerla.
Ciao, eroe di un tempo che non tornerà