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La Ferrari di Comunardo NiccolaiLeo Turrini - 21 aprile 2020

Spero tutti bene.
Ammetto che in questo oceano di tristezza recuperare la memoria mi aiuta a non affogare!
Mi auguro che questo sia pur minimo effetto terapeutico funzioni anche con voi (tra parentesi: grazie. Siete tantissimi).
Il mondiale del 1990.
Dopo Silverstone, i numeri dicevano quanto segue.
Quattro vittorie di Prost.
Tre di Senna.
Una di Patrese.
Mezzo campionato ancora da disputare.
Estate emotivamente torrida.
Il Big Casino che si era materializzato tra Maranello e Torino alimentava un incendio di passioni.
Un rogo ormai fuori controllo.
Prost non si fidava più di Fiorio.
Fiorio era stato delegittimato dall’azionista.
Senna, sincero o no che fosse il suo desiderio di vestirsi di Rosso, aveva comunque centrato l’obiettivo. E senza firmare un vero e proprio contratto, tramite legali svizzeri della Ferrari (come vedremo per il caso Nannini, certi impegni dovevano essere consacrati in maniera rigorosissima, mica erano cose da prendere alla leggera, i dettagli).
In mezzo a tutto questo pandemonio, il Leone fingeva di sbadigliare.
Mansell aveva capito da un pezzo di essere l’anello debole della catena. E si era chiamato fuori platealmente.
Ci andasse Fiorio, a chiedergli di aiutare Prost.
Sì, ciao.
A me, che francamente mi divertivo come un pazzo perché avevo trent’anni e vivevo in diretta fasti e nefasti della commedia umana, a me, dicevo, veniva in mente Comunardo Niccolai.
Pochi, già nel 1990, ne serbavano memoria. Niccolai era stato lo stopper del Cagliari campione d’Italia nel 1970. Era un buon difensore, era arrivato anche in Nazionale.
Aveva però un difetto.
Di tanto in tanto, firmava autogol spettacolari. Bellissimi, nella loro disastrosa propensione per l’autolesionismo.
Era ferrarista, immagino.
L’autogol dell’estate del 1990 stava generando conseguenze a catena.
Ad esempio, con Prost destinato a rimanere a Maranello, senza più relazione fiduciaria con il team principal, era necessario chiudere subito la pratica Alesi per il 1991.
Solo che Frank Williams faceva resistenza, come ho già detto. E aveva il coltello dalla parte del manico, stante l’abitudine di Giovannino a scarabocchiare autografi su ipotesi di contratto, diciamo così.
A Torino il picciotto andava bene, come soluzione. Ma sotto esame c’era Fiorio.
Dopo la tarantella Ayrton, come se la sarebbe cavata nella giungla dei cavilli?
E noi in Ferrari pensavamo ai cavilli, mentre in Giappone pensavano ai cavalli.
La Honda coltivava una venerazione assoluta per Ayrton. Uno dei motivi che avevano accelerato l’addio di Prost alla McLaren risiedeva a Tokyo e dintorni.
I giapponesi erano tutti per Senna. Un sentimento duraturo: ancora a venti anni dalla morte, hanno pubblicato l’edizione in ideogrammi del mio libriccino a lui dedicato.
E insomma la Honda avrebbe fatto qualunque cosa pur di dotare il brasiliano delle armi indispensabili per battere la Ferrari di Prost.
Per cui la differenza era questa.
In McLaren Honda la squadra era compatta, al servizio di un asso che trasudava carisma da ogni poro.
In Ferrari Prost, che era un pilota fortissimo, doveva confrontarsi con un clima non idilliaco.
Avrei scoperto poi, con mio colpevole ritardo!, che la base della Scuderia era tutta per lui.
Ho scritto la base.
Il treno iridato prese a deragliare ad Hockenheim.
La Honda portò una versione più potente del suo propulsore.
Senna volo’ via già dal sabato e per vederlo gli avversari dovettero munirsi di binocolo.
Secondo si classificò Nannini con la Benetton. Presto il Nano sarebbe finito dentro al tritacarne mediatico. Avrò modo di riparlarne, ahimè.
Mansell, non pervenuto.
E Prost? Quarto sotto la bandiera a scacchi, mortificato da un distacco quasi ciclistico, più di quaranta secondi.
Ayrton di nuovo in vetta al mondiale.
A lui i cavalli.
Ad Alain i cavilli.
Non era una storia destinata a finir bene.
(Continua)