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Italia90 e Adrian NeweyLeo Turrini - 15 aprile 2020

Spero tutti bene.
A inizio estate del 1990 sperimentai l’assenza.
Cioè, le circostanze mi imposero di disertare tre Gran Premi di seguito.
Il Canada.
Il Messico.
La Francia.
Motivo: il mondiale di calcio.
Italia 90 rappresentò qualcosa di simbolico.
Nel male. E nel bene.
Nel male, perché sprechi e ruberie e furberie confermarono la tendenza alla dilapidazione gratuita e ingiustificata. Ancora nel male, perché la scelte fatte sugli impianti furono un esempio di inesistente lungimiranza. Vennero costruite autentiche cattedrali nel deserto (il Delle Alpi di Torino, per dire), furono ampliate a sproposito strutture che ben potevano restare com’erano (l’Olimpico a Roma). E tutto mentre nel mondo si avvertiva l’esigenza, invece, di andare verso stadi più piccoli, a misura d’uomo.
Nel bene, però, quel torneo per oltre un mese offri’ a tantissimi il senso di una partecipazione ad una passione collettiva, unificante come talvolta solo lo sport, nello specifico il calcio, sa essere.
La Nazionale italiana non vinse, perse la semifinale ai rigori contro l’Argentina dì Maradona. Avevamo una bella squadra, fu un peccato. Baggio e gli occhi di Schillaci, Bergomi e Baresi, Donadoni e Maldini, il ct Vicini : avrebbero meritato di più.
Di tutto questo, del male e del bene, fu artefice un personaggio che avrei imparato a conoscere bene.
Montezemolo.
Lui mi dice sempre che agli scandali fu estraneo ed è una verità, se stiamo agli atti. Esiste anche, ovviamente, un giudizio che non è tecnicamente processuale.
E qui abbiamo opinioni diverse.
Io con Italia 90 c’entravo per lavoro. Al giornale mi dissero: va bene, ti dispiace, vorresti seguire Senna e Prost, ma un mondiale di calcio in casa ce lo abbiamo ogni mezzo secolo e quindi non rompere i coglioni e vattene ad Asti.
Ad Asti stava in ritiro il Brasile di Careca, Müller, Alemao, Taffarel.
Ora, potete immaginare. Più di cento colleghi sud americani al seguito della Selecao. Alcuni li conoscevo.
Erano altri tempi, il calcio non era ancora blindato, gli allenamenti ce li facevano vedere. E di cosa parlavo io, mentre Romario, che era una riserva(!), provava le punizioni?
Di Senna e di Prost.
I brasiliani erano ossessionati. Una mattina persino Aldair, futuro difensore della Roma, mi chiese perché Alain ce l’avesse così tanto con Ayrton.
Tentai di spiegargli che era vero anche il contrario, ma non ci fu verso.
Il colpevole doveva essere uno solo.
Intanto, con mio sommo dolore, la Fia aveva deciso che i Gran Premi si sarebbero corsi nonostante la mia assenza.
In Canada la Ferrari non fu all’altezza della situazione è Fiorio, scurissimo, venne scambiato per un immigrato uscito clandestinamente dal Botswana la sera della domenica a Montreal, quando la giuria penalizzò Berger per partenza anticipata e quindi consegnò a Senna la terza vittoria su cinque gare.
Mondiale finito, mi dissero allegri gli amici brasiliani al seguito della squadra del ct Lazaroni.
Ah, per la Selecao di sicuro, visto che sotto i miei occhi fu buttata fuori dal mondiale da una Argentina bruttissima ma esaltata dal demoniaco talento del Pibe de Oro.
Nonostante le mie reiterate proteste, la Fia tenne duro e decretò che in mia assenza si sarebbe corso pure in Messico.
Fu una gara memorabile, feci in tempo a vederla, tornato da una partita, in camera d’albergo. Su Telemontecarlo, al microfono Ronco.
Prost vinse in rimonta e Mansell perfezionò la doppietta Ferrari con un sorpasso incredibile ai danni di Berger.
No, il mondiale non era finito.
Anzi.
La domenica in cui stavo all’Olimpico per la finale iridata tra i tedeschi e gli argentini, la Formula Uno si esibiva al Castellet, in Francia.
Dovevo occuparmi di Klinsmann e di Caniggia.
Andò a finire che dovetti scrivere, fortunatamente e felicemente, della Ferrari.
Prost vinse ancora e fu il successo numero 100 della Rossa nei Gran Premi.
Vinse superando nel finale un magnifico Ivan Capelli, secondo con la Leyton House.
La Leyton House?
Ma cos’era, il nome di una casa di appuntamenti di lusso?!?
No, era una macchina.
Una monoposto con la quale aveva a che fare un ingegnerino dai pochi capelli.
Come si chiama costui?
Adrian Newey.
Mentre l’interista Brehme chiudeva il mondiale trasformando il rigore che consegnava la Coppa alla Germania, di una cosa ero sicuro.
Non avrei mai più sentito nominare Adrian Newey in vita mia, garantito.
Sono sempre stato un gran profeta, io.
(Continua)