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In morte di Sergio MarchionneLeo Turrini - 25 luglio 2018

In morte di Sergio Marchionne. Potevo scrivere solo questo.
Quando decise di diventare presidente della Ferrari, nel turbolento autunno del 2014, io ero tra quelli che nutrivano una severa diffidenza nei confronti del personaggio. Di più: il mio era un autentico pregiudizio negativo. Mi chiedevo (a voce alta, in pubblico: mai sopportati i giornalisti servi e codardi) cosa c’entrasse un manager della finanza prestato all’industria con la Passione Rossa, con quel sentimento popolare che rende unica la casa di Maranello. E la mia collaudata amicizia con Montezemolo, rimasto per quasi un quarto di secolo in groppa al Cavallino, non aiutava a smussare lo spigolo di un rifiuto preventivo.
Poi un giorno accadde una cosa che, a ripensarci oggi, fatalmente mi commuove. Ero negli studi di Sky, avevo appena finito una diretta e stavo per iniziarne un’altra. Squillò il cellulare. ‘Numero sconosciuto’, recitava la scritta sul display. Risposi in fretta e figuriamoci quando una voce si presentò dicendo: ‘Buona sera, sono Sergio Marchionne’.
La mia reazione fu persino ovvia: come no, e io sono Napoleone Bonaparte, smettila di fare il coglione, dimmi chi sei davvero e cosa vuoi, non ho tempo…
“Guardi che non sono Maurizio Crozza, sono Marchionne e avrei piacere di fare quattro chiacchiere assieme, le andrebbe?”
E mi andava sì ! A parte il fatto che mi venne da pensare che magari il tizio sarebbe stato pure in grado di fare slittare la diretta Sky, ero divorato dalla curiosità. Anche dallo stupore, lo ammetto. Nonostante fosse oberato di impegni, da Fiat Chrysler a Magneti Marelli, dal rilancio dell’Alfa ai trattori di Cnh, beh, pur girando sempre in aereo tra Torino e Detroit, ecco, Sergio Marchionne aveva voglia di parlare della Rossa.
“Vede, io vorrei che lei fosse consapevole di una cosa: io sono sinceramente innamorato della Ferrari e non da oggi, non perché ne sono diventato il presidente. Sono ferrarista dentro perché sono un italiano cresciuto all’estero e quando si è lontani ci si aggrappa a qualcosa che possa restituirci l’orgoglio delle origini. E per me questo qualcosa si chiamava Ferrari e dunque io non farò mai niente che possa danneggiarla, anzi, farò di tutto per renderla di nuovo vincente anche in Formula Uno”.
Da allora, mi sono imposto l’obbligo di rimuovere le diffidenze. Non sempre ho condiviso le scelte del presidente della Rossa, talvolta ho trovato inopportune esternazioni ed azioni, eppure mi sono convinto che l’uomo Marchionne ce l’aveva sotto la pelle, il virus ferrarista. E c’era del sentimento positivo, nel suo approccio alle cose della Formula Uno, quelle che per meravigliosa deformazione professionale più a cuore stanno a me e ai quattro lettori che si stanno soffermando su queste povere righe.
Ed è curioso, sapete, dover constatare che è stato questo cittadino del mondo, questo signore cosmopolita e poliglotta, ecco, è stato proprio Sergio Marchionne a rimettere il concetto di italianità al centro della Ferrari. Io ricordo perfettamente le perplessità, anche le mie!, che circondarono, un paio di anni fa, la sua pubblica scelta di non andare a cercare tecnici con passaporto straniero per il rilancio della monoposto da Gran Premio. Era l‘ estate del 2016, l’estate della conferma di Maurizio Arrivabene in un momento difficile, l’estate della nomina di Mattia Binotto a direttore tecnico, l’estate del travaso di tecnici come Cardile dalla produzione al reparto corse (e più tardi sarebbe arrivato anche Iotti, il capo dei motoristi).
A chi lo criticava, sospettando si trattasse di decisioni dettate dalla mancanza di credibili alternative, Marchionne diede una risposta che era un manifesto programmatico. Meglio ancora, sembrava uscita dalla sua tesi di laurea in filosofia. “Sul serio io non riesco a capire perché gli ingegneri italiani, così bravi a produrre le auto più belle del mondo, non dovrebbero essere in grado di realizzare una macchina da corsa vincente”.
Ecco, tutto questo io lo debbo a Sergio Marchionne. E gli sono anche debitore di una confidenza che volle regalarmi in occasione dell’ultimo Natale. A margine del tradizionale incontro con i giornalisti, mi preso in disparte. Non per svelare un segreto sul contratto di Vettel, no.
“Lo sa che io non vedo l’ora di lasciare Fca nel 2019 per dedicarmi in esclusiva alla Ferrari? Io adoro queste terre, finalmente ho trovato un posto dove mettere radici, voglio anche comprare casa qui a Maranello…”
Non accadrà, caro Sergio. Il destino ha deciso diversamente. E non sai quanto mi dispiace.