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Il Muro di Berlino e la Formula UnoLeo Turrini - 6 aprile 2020

Spero tutti bene.

Ho meditato sulle vostre garbate sollecitazioni e ho scelto di raccontare il mondiale del 1990, anche perché fanno trent’anni tondi tondi.

Sinceramente mi auguro di non dovere, dopo, narrare altre suggestioni figlie del passato: non perché non ne abbia voglia, ma perché vorrebbe dire che stiamo tornando a un presente che sa di futuro. Pensate che rimpiango persino gli imbecilli che pretendevano di insegnare a me l’arte (è un’arte, esatto, se si ha cuore!) del giornalismo.

Il 1990 era cominciato nel 1989, in realtà.

Venivano giù i calcinacci del Muro di Berlino e rammento ancora la commozione che provai, fra tante immagini incredibili, quando a Praga Vaclav Havel prese il timone della rivoluzione di velluto.

Havel era uno scrittore, un poeta. C’è stato un tempo, breve, in cui immaginammo che la cultura potesse essere un bonus, non un handicap.

Non sapevamo che il trionfo della ignoranza avida era dietro l’angolo.

Avidi e ignoranti erano anche tanti padroni della Formula Uno. Il modo in cui era stato assegnato il mondiale del 1989 era un inno alla ingiustizia.

Non per colpa del campione.

Alain Prost era uno vero. Sicuramente uno dei più grandi “all time”. Gli ha nuociuto, sulla bilancia della Storia, la fine tragica di Senna.

Quando un eroe muore giovane, si trasfigura immediatamente in mito. Chi ne è stato rivale, in modo legittimo, paga dazio nell’immaginario collettivo. Fu così per Bartali, sopravvissuto a Coppi. E già Omero lo aveva fatto capire, nel distinguo tra Ettore e Achille.

È accaduto anche al Professore di Francia.

E insomma a fine 1989, mentre il mondo cambiava, la Formula Uno somigliava alla vecchia Unione Sovietica di Stalin.

A morte il dissenso!

Dopo i fatti di Suzuka, non solo a Senna era stata sottratta la vittoria in pista. Fin qui, ci poteva anche stare, pur trattandosi di una audace interpretazione del regolamento.

C’era di peggio.

Ayrton aveva osato fare reclamo e aveva accompagnato il ricorso con una raffica di dichiarazioni polemiche.

Senna quando si incazzava era tremendo. Liberava il lato oscuro della sua forza e non si tratteneva.

Era come un Cavaliere Jedi esasperato dal tormento di quella che considerava una diabolica ingiustizia.

La reazione del Politburo della Fia fu spaventosa.

Jean Marie Balestre era un duce truce. Chiese ai giudici di appello una sentenza esemplare.

E gli sventurati risposero.

Non solo confermarono in appello il verdetto di Suzuka. Fin qui, l’ho detto, passi.

No.

Fecero qualcosa di osceno.

Revocarono al brasiliano la licenza di guida. Gli tolsero la patente! Mettendo nero su bianco che Ayrton era un pericolo per l’incolumità dei colleghi.

Un delinquente a trecento all’ora.

Ora, queste cose, nello sport come nella vita, accadono quando il Potere ritiene di non avere alcun limite. Il Potere non deve mai essere “pieno”, se no arrivi al delirio dell’uomo solo al comando, attorniato da sicofanti che pur di compiacere il Capo sono pronti a qualunque nefandezza.

A fine 1989, Senna lottava contro questi miserabili impuniti. Gli venne intimato di firmare una lettera di scuse, da indirizzare al satrapo Balestre.

Niente lettera, fine carriera.

In tutto questo, Alain Prost aveva quietamente fatto la valigia per Maranello.

La Ferrari ormai non vinceva il titolo piloti da oltre dieci anni.

Il Drake era morto a ferragosto del 1988.

I torinesi della Fiat continuavano a considerare Maranello una provincia dell’Impero. A lasciarli fare, pensavo io, questi ce la fanno.

A demolirla, la Rossa.

L’arrivo di Prost era però un segnale in controtendenza. Indicava che resisteva, quell’arrivo, una credibilità ferrarista nell’ambiente.

Il capo del reparto corse, dall’inizio del 1989, era Cesare Fiorio.

Grande storia nei rally, con la Lancia.

Un signor professionista, un po’ troppo attento alla abbronzatura per i miei gusti, but Times they are a changin’ (eh, Bob Dylan!).

Enzo Ferrari non aveva mai voluto Fiorio in azienda. Era un mezzo mistero, considerato il curriculum del personaggio.

Forse, mi dicevo, il Vecchio diffidava di chi si abbronzava troppo.

Di sicuro, a rendere nero il grande Cesare (quello di Alan Ford, che non era il costruttore di Detroit) avrebbe contribuito la coabitazione tra il professor Prost e un tizio che veniva da una isola, l’Isola di Man, dove pare i bambini si cibino di gatti.

Nigel Mansell.

(Continua)