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Da Silverstone 2018 a Silverstone 2020Leo Turrini - 27 luglio 2020

Per me è sempre un piacere quando gli amici di Autosprint mi chiedono un contributo.

Questione di sentimenti.

Sotto il testo che esce questa settimana sulla rivista.

E’ lunghetto ma magari interessa.

 

8 luglio 2018. Silverstone. Gran Premio di Inghilterra. Seb Vettel trionfa a bordo della Ferrari. Varcando il traguardo, via radio il tedesco esclama: “A casa loro, li abbiamo battuti a casa loro”. Si riferisce alla Mercedes, che ha la sede del team a Brackley, non distante dallo storico circuito britannico.
2 agosto 2020. La Formula Uno post Covid si appresta a tornare…sul luogo del delitto. Delitto, sì: perché sono passati poco più di due anni, ma per la Rossa di Maranello trattasi di era giurassica. E quello che segue è il racconto di un incredibile viaggio dal Paradiso all’Inferno, senza soste intermedie. Con molti dubbi sulla possibilità di acquistare un biglietto di ritorno.
Cominciamo da la’, da quell’8 luglio 2018. Non lo sa nessuno, ma è l’ultima vittoria di Sergio Marchionne. Il successore di Montezemolo è già in agonia, in una clinica svizzera. Un destino crudele non gli lascerà scampo. Simbolicamente, per stare all’universo delle corse, il Presidente si congeda con Vettel in vetta alla classifica piloti e con il Cavallino leader della graduatoria riservata ai costruttori.
Ebbene, l’8 luglio 2018, non una vita fa!, a nessuno verrebbe in mente di contestare la scelta strategica di Marchionne il ferrarista. Anzi, è tutto un peana al “metodo orizzontale di lavoro” e alla italianità della struttura tecnica. Che bravo Binotto! Che mago Cardile! Formidabile Iotti, il motorista preso dalla produzione! Che lezione agli spocchiosi concorrenti sempre pronti ad irridere lo spaghetti-system!
A quanto pare, era tutta una illusione ottica. Un miraggio. Perché poi Marchionne muore e una botola si apre sotto i piedi della Rossa. Ma andiamo con ordine, perché c’è del metodo (non orizzontale!) in questa follia.
Di sicuro lo stile di Sergio il Presidente contemplava anche il ricorso allo stiletto. Le frettolose e un po’ bizzarre rimozioni di James Allison e di Lorenzo Sassi, tra il 2016 e il 2017, non furono esempi di lungimiranza. Silurare dt e capo dei motoristi per ritrovarseli a breve in Mercedes, insomma, non è stato geniale. Nemmeno spostare Resta, il progettista, in Alfa a primavera del 2018, con una macchina in lotta per il titolo e quindi da sviluppare fino alla fine della stagione.
Uno vale uno lo dicevano i grillini in politica: e si è visto che era una scempiaggine. In politica. Ma anche ai box.
Man mano che Marchionne dava la sua impronta al reparto corse, cresceva il disagio di Maurizio Arrivabene. Ruvido, non di rado sopra le righe, il manager bresciano poco condivideva, dello stile presidenziale. Ma era un esecutore, con margini molto limitati di autonomia.
Invece, Mattia Binotto si è sempre riconosciuto nella filosofia dell’erede di Montezemolo. Tanto che la sua resistibile ascesa ai vertici della Scuderia è venuta a coincidere con la attuazione delle marchionnesche epurazioni. Questa è cronaca, dopo di che legittimamente tutti abbiamo il sacrosanto diritto di cambiare opinione (e schema di organizzazione del lavoro, ci mancherebbe).
Riassumendo. Binotto è il pupillo di Sergio. In morte del Pres, gli azionisti sbarellano per un attimo. Poi affidano l’azienda a Camilleri, pezzo grosso della Philip Morris, con ottime conoscenze del business F1. E nominano John Elkann presidente.
Ora, qui mi concederò un rapido inciso. Il nipote di Gianni Agnelli sa di corse quanto io so di fisica nucleare. E infatti nel 2019 si presenta al Gran Premio a Baku, dove Vettel e Leclerc rimediano una brutta figura. A Carletto vengono montate gomme morbide in extremis, giusto per artigliare il punto del giro veloce. Commento di John Elkann: sono contento perché il giro veloce è nostro.
Ma anche no, dai. Ci sono ruoli, per quanti esercitati solo simbolicamente, che esigono ben altra consapevolezza. Piantiamola qui, per carità di patria.
Intanto Arrivabene si suicida lamentando pubblicamente i limiti della squadra, cosa che un Todt o un Domenicali mai avrebbero fatto, nemmeno la meteora Mattiacci. Non si fa casino in piazza, alla Ferrari. Dunque Maurizio perde il posto. A beneficio di chi?
Binotto, of course.
Siamo a gennaio 2019 e qui accade una cosa che rimane inspiegabile. Tutti ci aspettiamo che il nuovo team principal nomini un direttore tecnico. Non perché ci siano responsabilità da scaricare. Semplicemente perché il capo del reparto corse ha tante e tali incombenze “politiche” che non può avere il tempo di comandare anche sugli alettoni o gli scarichi. Enzo Ferrari lo aveva capito già all’alba degli anni Settanta del secolo scorso, quando affiancò al ruggente Forghieri il rampante Montezemolo.
Perché Binotto ha conservato il doppio ruolo? Per fiducia, vien da pensare, nel famoso “metodo orizzontale”, niente piramide gerarchica e bla bla bla.
Un errore? Sicuro. Ci sarà un motivo se in Mercedes non fanno così, nemmeno in Alfa e in Haas fanno così. Ci voleva tanto a dire a Simone Resta, di ritorno dalla comparsata in Svizzera, “tu fai il dt”?
Ci voleva tanto, evidentemente sì.
E siamo al 2019, anno uno post Marchionne. Leclerc arriva e va subito come un proiettile, Vettel incassa male e sulla gestione dei piloti ci sarebbe da scrivere un numero intero di Autosprint. Per non farci mancare niente, visto che la power unit ha raggiunto le prestazioni Mercedes, beh, si restituisce Corrado Iotti alla produzione. Ha senso? No, ma fa lo stesso, tanto è venuto il momento di occuparci della Talpa.
Beninteso, io non sono Le Carré ma la faccenda del “Soffia” che ha inguaiato la Ferrari l’ha tirata fuori chi scrive, all’inizio non ci credeva nessuno e rivendico le royalties.
Per capirci. Una estate fa, prima di Spa, a Maranello individuano una soluzione “border line” che inguaia i concorrenti. Si vince in Belgio, a Monza, a Singapore. Raffica di pole. Un tripudio. E attenzione: gli ispettori della Fia, invitati ad indagare dai Toto Wolff e dagli Horner, non trovano nulla di irregolare.
Solo che. Solo che, dalle segrete stanze di Maranello, scivolano fuori informazioni riservatissime. Che planano misteriosamente sui tavoli degli inquisitori.
Classico caso di “fuoco amico”. Qui non è il caso di sottilizzare se quella soluzione tecnica fosse legale o meno: in F1 da sempre i più bravi sono quelli che interpretano le aree grigie del regolamento.
Il vero guaio è la fuga di notizie. Che costringe la Ferrari al famoso “accordo secretato”: per la serie io so che tu sai che io so. Non c’erano alternative e quanto alla Talpa vi assicuro che è in buona salute, ci mancherebbe.
Ma basta la rinuncia alla magia della power unit come spiegazione al flop 2020 della Rossa? Certo che no: magari ti potevi ritrovare di nuovo dietro a Mercedes, che di furbate se ne intende e in Fia ha buoni amici ovviamente ex ferraristi. Ma se stai dietro anche a Red Bull, Racing Point, McLaren, talvolta persino Alpha Tauri, via, è troppo.
La risposta che è stata appena data, lo sapete, è che si sbagliava Marchionne. Fine del metodo orizzontale, che in effetti ci ha stesi ben bene. Però gli uomini rimangono gli stessi. Mattia Binotto, l’allenatore, cambia modulo. Dal 4-3-3 passa al 4-5-1. La farina è identica, ma si promette un pane diverso. Boh.
Torna la piramide, a Maranello. Ma la Sfinge, forse, ha già capito tutto.