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Con Bianchi prima di Suzuka, parlando di LeclercLeo Turrini - 8 ottobre 2019

Mi pare fosse l’estate del 2014.
Stavo a tavola in un ristorante di Maranello, immagino il Montana.
È molto emiliano, lo so, ricondurre a momenti gastronomici certe suggestioni emotive.
Insomma, entrò nel locale un giovane pilota.
Jules Bianchi.
Di lui, allievo della scuola Ferrari, sentivo dire un gran bene.
E io, lo ammetto, ormai per ragioni anagrafiche ho un debole per ragazzi che potrebbero essere figli miei.
È una conseguenza del tempo che va. Scrivevo di Senna quando eravamo coetanei.
Non può essere la stessa cosa narrare le imprese, belle o brutte che siano, di chi appartiene ad una generazione distinta e distante.
Insomma, entrò Bianchi e fu persino banale fargli i complimenti per una bella gara che aveva disputato non so dove.
Jules ringraziò e poi si mise a spiegare che però il suo fratellino era il vero campione del futuro.
Io ero un po’ distratto dalla tagliatella al ragù e chiesi come facesse di nome quest’altro Bianchi.
Charles Leclerc, rispose lui.
Stavo abbandonandomi ad una riflessione sulla meraviglia delle famiglie allargate quando qualcuno più sveglio di me ebbe il buon cuore di chiarirmi che Jules e Charles erano idealmente fratelli ma non per l’anagrafe.
Ogni tanto l’episodio riaffiora tra i detriti della memoria. Figuriamoci poi in questi giorni, mentre la Formula Uno punta su Suzuka, dove il destino di Bianchi si compì, nell’angoscia di una agonia senza speranze.
So che Carletto è legatissimo al ricordo di quella amicizia. E so anche che un essere umano si porta dentro e dietro un grumo di rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato e non sarà.
Ma è quel grumo che ci tieni vivi.
Buon viaggio in Giappone, Carletto (e tieni spenta la radio, se puoi).