Tradire la fiducia di una donna è soprattutto un atto di viltà. Uccidere la madre dei tuoi figli è un crimine che non merita perdono, perché tradisce ogni forma di civiltà. Negare agli orfani di quella donna risarcimento e, attraverso quello, solidarietà, è un fatto per il quale è difficile trovare parole adatte. Tranne una, ancora una volta: tradimento.
Tutto nella storia di Marianna Manduca e dei suoi tre figli evoca quella parola. Il sentimento di pietà nei confronti di una madre e dei ragazzi rimasti senza di lei viene rinnegato due volte. La prima, quando i giudici riconoscono ai tre minorenni, come indennizzo, l’avara cifra di 259.200 euro. La seconda, quando altri giudici, in appello, negano anche quel pugno di euro ordinandone addirittura la restituzione. E allora viene in mente un’altra parola: errore. Seguita da un’altra ancora: sospetto. E non stiamo parlando di abbaglio giudiziario o svista burocratica. Il sospetto che nasce è che lo Stato non abbia, talvolta, la forza di riconoscere i propri, di errori. Sicuramente esisteranno cavilli o articoli di codice per giustificare la richiesta di restituzione del risarcimento. Altrettanto sicuramente non si troverà traccia di spiegazione accettabile nell’ideale libro dell’umana pietà.
Anche le cifre fanno male in questa vicenda di giustizia opaca. Dodici sono le volte che Marianna denunciò suo marito: la tredicesima non fece in tempo perché venne uccisa. Sempre dodici, dunque, le volte che non venne ascoltata. E se dividete 259.200 euro per dodici conoscerete il prezzo di ogni singola ferita inflitta a Marianna. E ai suoi figli, ora costretti a restituire la somma come un ultimo sberleffo sul proprio futuro.
A meno che altri giudici, in Cassazione, non abbiano la forza di ribaltare ancora una volta la sentenza. In modo che la giustizia non resti orfana di se stessa. E la parola tradimento venga rinnegata.
Gianluigi Schiavon
© Riproduzione riservata