REGGIO AEMILIA

Reggio Emilia, 4 marzo 2017 – «NON avevo capito con che persone avessi a che fare. Pensavo fosse brava gente, finché non mi ritrovai in un’auto con una pistola puntata alla tempia. Allora mi resi conto di come funzionavano le cose. E non se ne esce facilmente».

La parlata, la erre inconfondibile è quella di Baganzola.  Sta seduto di spalle in un sito segreto, protetto per essersi ‘pentito’; ma la faccia di Paolo Signifredi se la ricordano in tanti. Lui, che oggi ha 52 anni, sedicente commercialista con numerosi processi pendenti, per nove mesi fu anche una meteora del calcio; patron del Brescello, fra il 2003 e il 2004. Un’avventura naufragata in un mare di debiti mentre i suoi calciatori facevano a gara per chiedere di cambiare casacca, prima che lui finisse in carcere per ricettazione e riciclaggio.

Quella che ha raccontato ieri Signifredi come testimone del processo Aemilia – imputato per reato connesso nel processo alla ’ndrangheta Pesci di Brescia, già condannato a 6 anni in abbreviato –, però, è tutta un’altra storia.

Una storia fatta di minacce («ti sciogliamo nell’acido e diamo i tuoi figli in pasto ai cani se non fai il finto pentito per conto nostro»), di pranzi a Cutro a casa di Nicolino Grande Aracri, di decine di milioni di euro che potevano fioccare come noccioline se solo ‘Nicola’ avesse voluto.

«La mia collaborazione è nata sotto forti pressioni da parte di un altro detenuto, Antonio Rocca, eravamo insieme nel carcere di Voghera nel 2015. Mi minacciava tutti i giorni, da marzo ad agosto – ha raccontato il parmense – . Diceva che se non mi fossi pentito e non avessi detto ai pm le cose che mi dettava lui mi avrebbe sciolto nell’acido e dato la mia famiglia in pasto ai maiali, ‘come facciamo noi giù’, diceva».

Il muratore Antonio Rocca, imputato di Aemilia, dettava le regole. «Io avrei dovuto dire cose attendibili e poi 2-3 elementi che lo avrebbero scagionato. ‘Se non lo fai ai tuoi familiari ci sono già 100 persone pronte ad ammazzarli’. Eravamo nel carcere di Voghera, nella stessa sezione. Sempre insieme: ora d’aria, socialità. Lui disse che si era consultato con i suoi avvocati e questa era la strategia. Non si poteva pentire lui perché perché viene da giù e queste cose non si fanno. Ma io dovevo. ‘Altrimenti ricordati che fuori ci sono i tuoi figli… Cerca di ricordartelo’. Quando ho capito come andavano le cose volevo uscire, ma non è facile uscire quando sei dentro. Ci ho messo diversi mesi».

REGGIO TRIBUNALE

Signifredi ha poi raccontato di quel gennaio 2012 in cui salì in auto con Salvatore Muto, 40 anni, un altro imputato di Aemilia. Era davanti a una casa, assieme ad altre persone, per assistere al pagamento di un debito da 30mila euro.

«A un certo punto arriva Muto e dice ‘No, quei soldi lì li prendo io’». Lo conosceva appena, confessa il pentito. «Ma a un certo punto Muto mi disse: ‘Vieni in macchina con me che ti conviene’, con fare minaccioso, brusco. Lo feci. Partimmo in direzione Cremona con la macchina. Si parlava di cantieri, di lavoro. Prima di arrivare, da sotto il sedile mentre guidava tira fuori una pistola e me la punta alla tempia. Io ero ghiacciato, sudavo freddo. Non ha detto niente, non ha aperto bocca. Ha fatto segno di tacere con il dito, l’ha messa via e poi ha ripreso a parlare di cantieri. Siamo poi arrivati in un bar pieno di slot machine. E lì mi ha presentato Lamanna. Che si trattasse di ’ndrangheta me l’ha detto poi Antonio Rocca. Lamanna mi aveva detto di non dire niente e io spaventato dalla pistola non lo feci».

Signifredi continua a parlare. Dice di aver conosciuto Antonio Valerio in un paio di occasioni («a casa di un mio amico propose un prestito di 50mila euro con interessi del 7% la settimana») e di ricordarlo in particolare per la storia delle monete coreane («Valerio aveva questo giro di monete coreane e voleva venderle a cifre stratosferiche»).

Infine, ha ricordato l’affare sfumato in cui Nicolino Grande Aracri voleva investire 35milioni di euro in immobili sul lago di Garda. «Io dovevo agevolare la trattativa, ma non andò a buon fine». Per l’occasione, però, Signifredi andò due volte a Cutro a casa di mano di gomma.

Davanti all’album fotografico degli imputati che il pm Marco Mescolini gli ha sottoposto, il finto commercialista ha riconosciuto con certezza l’immagine di Nicolino Grande Aracri, Giuseppe ‘Pino’ Loprete e Antonio Rocca. Più a fatica, al terzo tentativo, quella di Franco Lamanna, Salvatore Muto e Antonio Valerio.