Il pentito Giuseppe 'Pino' Giglio

Il pentito Giuseppe ‘Pino’ Giglio

Reggio Emilia, 22 ottobre 2016 – «LA ’NDRANGHETA in Emilia non poteva essere finita con la sentenza Edilpriovra, del 2002. C’era una cosca che operava autonomamente, ce ne accorgevamo di continuo, anche perché i nomi che giravano erano sempre gli stessi».

Fatti, date, famiglie, parentele, ricostruzioni. C’era tutto, ieri, nella testimonianza del maresciallo Emidio D’Agostino, dei carabinieri di Modena, chiamato a raccontare ciò che è emerso dalle sue indagini, vero seme da cui poi è germogliata tutta l’inchiesta Aemilia, nell’aprile del 2010.

«L’indagine nasce nel 2010 quando abbiamo riattivato i telefoni di Paolo Pelaggi, per capire dove fosse finito. È stato lì che per la prima volta, nelle intercettazioni, abbiamo sentito nominare Pino Giglio e Pasquale Riillo, fino a quel momento dei perfetti sconosciuti per noi».

TUTTO, dunque, partì quasi per caso. Da quella bomba che nel 2006 deflagrò all’agenzia delle entrate di Sassuolo, dopo che l’ente aveva effettuato accertamenti fiscali sulla Point One, azienda di Maranello riconducibile ai tre fratelli calabresi Pelaggi, poi accusati di reimpiego di denaro della cosca Arena. I tre sono stati condannati – con sentenze passate in giudicato – per frodi carosello che avrebbero fruttato centinaia di migliaia di euro in vari anni. Avrebbero riciclato denaro sporco proprio attraverso la loro ditta che, sulla carta, commerciava in prodotti informatici.

«Quando abbiamo ripreso le intercettazioni su Pelaggi, nel 2010, abbiamo scoperto che era in contatto con Giglio e Riillo. Allora abbiamo iniziato a chiederci che tipo di affari facessero costoro assieme, dato che Pelaggi riciclava i soldi del clan Arena».

E sono bastati tre-quattro mesi di indagine, «per avere il primo nucleo del fascicolo di Aemilia», ha detto D’Agostino. Ma è da gennaio 2011 che gli investigatori si accorgono che qualcosa è cambiato. «Gli Arena erano spariti, ma c’era invece un gruppo di cutresi molto forte che aveva preso il posto del clan di Isola Capo Rizzuto e che faceva capo alla famiglia Grande Aracri». L’Emilia, in quel momento, diventa un crocevia di indagini: i carabinieri di Fiorenzuola, quelli di Parma, la Finanza di Cremona. E tutto, sempre, con fulcro a Reggio. «Noi stavamo indagando da sud verso nord, e a Piacenza da nord verso sud, ma l’epicentro era qui a Reggio e i nomi su cui indagavamo sempre gli stessi», ha insistito D’Agostino.

Diverse, però, le modalità operative nelle varie province: estorsioni e furti di gomme e gasolio da reimpiegare nell’autotrasporto nel reggiano, soprattutto ‘frodi carosello’ e fatture false a Modena.

In aula, poi, il carabiniere ha fatto ascoltare un’intercettazione fra il pentito Pino Giglio e un altro imprenditore calabrese, per spiegare il cosiddetto per eliminare la concorrenza («nei trasporti praticavano prezzi stracciati, fuori mercato, perché avevano gomme ricettate e gasolio rubato»). «Abbiamo capito che a differenza di Dragone che accentrava tutto, quella di Grande Aracri è una rete che collabora, dove ci sono tanti luogotenenti. La cosca di Grande Aracri è tentacolare, gli imprenditori sono con-soci delle attività di ’ndrangheta e si rendono conto che le false fatture fanno più soldi della droga. E allora perché correre il rischio di spacciare?» Di più. «In questo modo creavano anche consenso, perché i direttori di banca e delle poste erano felici di averli come correntisti. E spesso sembrano pure coprire le loro operazioni sospette».