REGGIO TRIBUNALE

Reggio Emilia, 10 febbraio 2017 – C’erano un paravento e la voce di Angelo Salvatore Cortese, collaboratore di giustizia cutrese di 51 anni (autoaccusatosi di almeno otto omicidi, tra cui quelli reggiani di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero). Tutta lì, nell’aula di Aemilia, la storia della ’ndrangheta legata a doppio filo con la nostra terra.

Dalla sanguinosa guerra tra famiglie degli anni Novanta, fino ai soldi facili e a palate dell’edilizia nei Duemila. Era lui l’amico fraterno di Nicolino Grande Aracri, suo braccio destro e sua ombra; fino al 2008, dopo l’ultimo arresto per droga, quando ha deciso di pentirsi «stanco del fango» e «per amore della compagna».

Ha ripercorso la storia della mafia calabrese, Cortese, dal 1985 («anno in cui mi sono affiliato con i Dragone, come tutti») al giorno in cui ha iniziato la collaborazione (da allora vive sotto protezione in località segreta).
«A Reggio operava una ’ndrina distaccata. Che significa? Persone trasferite da Cutro che operano con le stesse modalità: estorsioni, droga, rapine, riciclaggio. Tutto nello stesso modo: le novità si passano sempre a Nicolino Grande Aracri, le cose importanti le decide lui, non si muove foglie se non lo dice lui. I battesimi si possono fare ovunque, anche in Emilia. Ma li decide sempre il capo-società».
Ha raccontato dei meccanismi, delle atmosfere. «A Cutro ci conosciamo tutti, è piccola. La casa di Nicolino Grande Aracri era come una chiesa, tutti andavano là tutti a trovarlo: Alfonso Diletto, i Sarcone, Blasco. Li ho visti io… Chi arrivava d’estate o a Natale per prima cosa andava a trovarlo: chi portava fiori, chi soldi. Era un senso di rispetto».

Perché tutti sapevano con chi si aveva a che fare. «In paese c’era paura per il gruppo di fuoco». Una paura che si è trasferita anche a Reggio, allo stesso modo. «Sanno che hanno a che fare con la morte appena vedono uno del gruppo Grande Aracri. Quello che vogliono qua è la tranquillità. Qua non denunceranno mai uno che gli fa l’estorsione. Sono terrorizzati. Palmo Vertinelli, ad esempio, si era sfogato con me una volta al ristorante: ‘Non ce la faccio più tutti vogliono soldi… ’». Ma nessuno, dice, avrebbe mai denunciato. In Calabria funziona così.
Arrestato per i due omicidi nel 1993, Angelo Salvatore Cortese fu prima condannato poi assolto. Arrestato nel 2000 dopo il ritrovamento di un arsenale, venne condannato a 6 anni, ridotti a 4 in appello. Di nuovo arrestato nel 2001, riuscì ad evadere dai domiciliari. Seguì la sorveglianza speciale, poi di nuovo la libertà.
«Nel 2005 decisi di fare un viaggio al nord con mio zio e andammo a trovare i cutresi che conoscevo e che si erano trasferiti nel reggiano. Rimasi sbalordito quando li vidi: li conoscevo come operai, muratori e in pochi anni erano diventati ricchissimi. I fratelli Muto di Gualtieri, ad esempio. O Pino Giglio: quando lo lasciai io era rovinato, sotto usura. Erano persone che morivano di fame e dopo pochi anni ville, Audi, 40 camion. Ci sono rimasto male».
Ma non è un reato fare i soldi, obietta il pm . «Gli affari non possono andare così bene… Solo illeciti potevano essere. Non poteva essere un salto così col lavoro onesto – annuisce Cortese –. Vidi queste persone e cominciai a capire come funzionava: Palmo Vertinelli, Pino Giglio, i fratelli Muto, mi regalavamo soldi, mi portavano a cene, night… Avevo trovato l’America. Solo con la mia presenza incutevo timore e mi davano 5-10 mila euro. Mi davano da mangiare, appoggio logistico, macchine per camminare. Erano i nostri bancomat: in 10 minuti, senza fare minacce, mi davano 10mila euro. Allora decisi di restare in Emilia».