Reggio Emilia, 8 luglio 2016 – Entra in ciabatte infradito, camicia blu notte, fisico possente. L’aria sicura, però, non si riflette nella sua voce incerta. È tutta una sfilza di «non ricordo, non so, è passato tanto tempo». Dimitri Menozzi, imprenditore di 41 anni di Correggio, ci metterà quasi tre ore per ammettere di essere stato «intimidito, traumatizzato, spaventato, costretto a firmare cambiali», attraverso minacce di morte e allusioni a presunte ritorsioni contro i suoi cari. «Ho paura per mia figlia e per la mia famiglia. Esisteva il timore che qualcuno potesse fare male a loro», se non avesse pagato quei presunti debiti, che però non aveva nemmeno più, a suo dire.

Se c’è un’udienza che, più di tutte le altre, ha dato l’idea di ciò che rappresenta e ha rappresentato la cosca di ’ndrangheta radicata sul nostro territorio, nei rapporti di amicizia, negli affari e nelle dinamiche quotidiane, è stata quella di ieri.

Perché nell’aula bunker di Aemilia, in via Paterlini, più volte sono rimbombate le parole omertà, reticenza, verità, davanti a testimoni che hanno dato l’impressione di non voler dire tutto, quasi a non fare troppo danno a quei loro «mezzi parenti» imputati o «amici di una vita».

È il caso proprio di Menozzi, che è riuscito a ricordare molti particolari della vicenda che lo vede vittima di estorsione aggravata soltanto dopo il rimbrotto del presidente del collegio Caruso: «La reticenza è reato, lei deve dire la verità – lo ha incalzato il giudice –. Si può pensare che questo suo cattivo ricordo sia frutto di altro».

Imputati, per averlo minacciato chiedendogli denaro, Luigi Silipo («lo conosco da 25 anni, siamo amici da sempre, lo chiamavo fratello»), Gaetano Blasco (accusato di essere a disposizione della cosca) e Michele Tostoni(gestore dell’area di servizio Agip di via Emilia all’Angelo), in concorso con Nicolino Sarcone, Antonio Silipo e Antonio Frizzale (tutti e tre già condannati in abbreviato).

È il 2008 quando l’impresa edile del correggese inizia ad accumulare debiti. Uno di questi, pari a circa 10mila euro, è con i titolari di una stazione di servizio Agip di Pieve Modolena in via Emilia all’Angelo, Michele Tostoni e Antonio Frizzale. Tramite una terza persona, Emilio Bocconcino, Menozzi avrebbe saldato il suo debito cedendo a Bocconcino stesso crediti vantati verso terzi per la somma di 15-18mila euro. Questi aveva promesso che si sarebbe a sua volta accollato il debito con i due gestori della stazione di servizio. «Tutto a posto, mi ripeteva sempre», dice Dimitri.

Peccato che, diverso tempo dopo nel maggio 2012, si fa vivo il suo amico fraterno, Luigi Silipo, con una telefonata.

«Mi ha detto che alcune persone mi cercavano ed erano delinquenti, se non avessi pagato mi avrebbero fatto del male e mi avrebbero rotto la testa e non c’era più modo di tornare indietro», riferirà Menozzi ai carabinieri. Poco dopo arriva l’incontro con Antonio Silipo (fratello di Luigi), Nicolino Sarcone e Gaetano Blasco davanti a un bar di via Kennedy. «Mi hanno detto che dovevo pagare i debiti e mi hanno portato in macchina fino al distributore. Ci seguiva un’altra auto da cui è sceso un calabrese che fa ilpicchiatore». Lì, dice, si è sentito costretto a firmare cambiali per 10mila euro. Ma ne riuscirà a pagare soltanto una.

Nel pomeriggio, stessa musica. Il collegio ascolta Domenico Bonifazio, l’imprenditore di Reggiolo che a inizio novembre 2012 subì l’incendio di nove camion della sua ditta di trasporto di ghiaia.

«Bonifazio, chi è reticente va sotto processo per falsa testimonianza. Per il momento la ammonisco. Sta dicendo cose contraddittorie e incomplete», sbotta Caruso. «Sembra quasi che ora sia io l’indagato», si è difeso Bonifazio. Prima di lui si sono presentate sul banco dei testimoni anche le sue due figlie interrogate a proposito di un fax in cui si parlava dell’incendio. «Ancora oggi non riusciamo a spiegare le motivazioni dell’incendio», ha ribadito una delle due nella deposizione.

REGGIO AEMILIA

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