Start spreading the news. Metro. La cerco. Vediamo com’è oggi. Bionda. Bruna. In piedi. Seduti. Lavoro. Ipocrisia. Colleghe. Pausa. Casa. Ore al pc. Porno. Anonimato. Brandon. Footing. Madison Square Garden. Uomo qualunque. Città qualunque. No è New York. La città migliore per essere una persona qualunque. Dipendenza. Pigrizia. Dipendenza dalla pigrizia. Ossessione. Rapporti umani non esistono. Al lavoro sei solo. Nella vita sono solo. In famiglia sono solo. Voglio bene a mia sorella, ma non ho tempo. I am leaving today. Mi vergogno. Quando sono solo, non davanti agli altri. Non mi vergogno. Ricomincio. Con lo stesso cappio attorno al collo.

Ho provato a telegrafare la mia idea di Shame. Opera seconda di Steve McQueen, dopo il complesso ‘Hunger’. Non è un film sulla dipendenza dal sesso. E’ un film su New York e su ciò che New York è diventata. Secondo Steve McQueen, fuori dall’idea da spot televisivo o da racconto di un viaggio di quindici giorni. Brandon, interpretato da un Michael Fassbender in grande forma, è l’uomo qualunque. Debole, mangiatore di donne, infantile nei rapporti interpersonali. Deve liberarsi per vivere. Sfogarsi. E il mondo che lo circonda è il suo habitat naturale. Potresti stringergli la mano mille volte in una giornata. Ma faticheresti a ricordare il suo nome. I want to be a part of it.

La New York di McQueen non è lontana dalla New York che Bret Easton Ellis raccontava nel suo capolavoro, American Psycho. A più di vent’anni di distanza che cosa è cambiato? Quasi nulla. Ci sono i social network, c’è un mondo virtuale che crea dipendenza. Ma l’essere umano è identico. Patrick Bateman, protagonista del romanzo di Ellis, era un sesso-dipendente che ammazzava (forse) per liberarsi. Il Brandon di McQueen è un sesso-dipendente che deve scendere sempre più in basso, tra rapporti omosessuali e docce gelate di cocaina, per sentirsi vivo. E la New York di plastica di 20 anni fa ne esce quasi peggiorata: dal Tunnel Club dove Bateman sorseggiava J&B on the rocks per accalappiare ‘corpoduro’, si passa a tugurii sporchi come il male, che sembrano usciti da ‘Cabal’ di Clive Barker, dove Brandon abbandona il suo corpo oltre la linea di confine. New York, New York. Un fiume carsico, sotterraneo, dietro le quinte infiocchettate.

A McQueen interessa il ritratto: la vita nel 21esimo secolo. Dove l’uomo è debole e la dipendenza è vivere. Senza vergogna: la si può provare per un attimo. Ma poi tutto passa, nessuno a New York si ricorderà chi eri. Tantomeno chi sei.

Memorabili almeno 2 o 3 sequenze. L’inizio. La carrellata del footing serale del protagonista. La sequenza al ristorante con la collega. Il canto struggente di Carey Mulligan: una sorella che solo col sacrificio riesce a far capire a Brandon, per un attimo, che la vita va oltre le dipendenze. Shame non è un capolavoro: è un quadro bellissimo.

Start spreading the news. I am leaving today. I want to be a part of it. New York, New York.