Avevo una mezza idea di scrivere che l’Italia femminile arrivata alla fase finale del mondiale è lo specchio di un paese ormai multietnico, una bella babele di accenti e colori che si fonde in un azzurro nel quale si riconoscono tutte le ragazze, non fa differenza che siano nate in Argentina come la Costagrande, che siano tedesche d’Italia come la Folie (bravissima nell’affondare schiacciate almeno quanto lo è stata nel ringraziare Bari e il Sud), o italiane di sangue africano come la Diouf. Ma sotto la rete del volley non è più una novità da anni, questo melting pot, e poi basta la foto di Maroni, nel senso di leghista e governatore della Lombardia, postata sul suo blog dall’amico Mario Salvini qui a rendere l’idea meglio di qualsiasi discorso, retorico o meno.

Avrei potuto ribadire una volta di più che le donne sono ormai il traino dello sport italiano, non soltanto per le prodezze individuali, ma anche negli sport di squadra. E questo forse sarebbe stato uno spunto di discussione più fertile, perché una volta si diceva che gli uomini sapevano fare squadra molto meglio delle donne, che gli allenatori dei gruppi femminili dovevano stare attenti più alle permalosità delle atlete che al lavoro tecnico-tattico, per tacere di altre battutacce sessiste sull’intrattabilità a cadenza mensile di certe atlete, e insomma tutta una serie di balle che il tempo ha ormai smascherato. Quindi non lo farò, non parlerò di questo, oggi.

Mi piace di più riflettere su un’altra bella dimostrazione offerta dalle azzurre, anche se so benissimo che trasportare un messaggio  sportivo nel contesto della società civile è un’operazione oziosa, quasi sempre inutile e in fondo poco più di un trastullo per chi si sforza ancora di cercare esempi e insegnamenti nella realtà che ci circonda. Tutto vero, eppure mi sembra molto bello che questi risultati stiano arrivando da un gruppo che unisce bianche e nere, giovani e meno giovani, alte e basse, ragazze figlie di culture diverse, tutte accomunate dallo stesso obiettivo e spinte dalla stessa passione. Il ct Marco Bonitta, dopo aver vinto il primo e unico mondiale del nostro volley femminile, da una squadra che contava alcune giocatrici di questo stesso gruppo era stato messo alla porta. Un paio di loro, la Lo Bianco e la Cardullo, non facevano parte del progetto iniziale di questa stagione, come la Costagrande che non partecipò all’ammutinamento del 2006, ma comunque è stata richiamata dopo l’infortunio di Lucia Bosetti. E altre vicissitudini hanno reso la preparazione di questo mondiale una corsa ad handicap, tra l’infortunio della Ferretti e la rinuncia della Aguero.

Insomma, se fosse vero che le donne sono difficili da gestire perché schiave di permalosità e ripicche personali che rendono arduo lavorare tutte insieme, tutto quello che abbiamo visto in un mondiale finora esaltante per le azzurre (perché battere la Cina come hanno fatto ieri è stata una vera prodezza), non sarebbe stato possibile. A me da fuori sembra invece che tutti, dal ct alle giocatrici, stiano dando una bella lezione al Paese. Bonitta le sta ruotando tutte e 14, e tutte hanno già avuto il loro momento di gloria, oltre a quello di difficoltà. Tutte sono titolari, tutte sono protagoniste. Nessuno sta facendo pesare un passato che in alcuni casi potrebbe spingere a ripicche o allentare il tiro delle motivazioni. Come se l’intero gruppo e tutti i singoli avessero deciso di giocarsi il mondiale come si fa con ogni set in campo: pensando sempre al prossimo punto da conquistare, e non all’ultimo che magari è stato perso. Rinunciando al proprio orticello per andare verso un sogno che può arricchire tutti.

La mancanza di questo spirito mi sembra esattamente il motivo per cui l’Italia fuori dal campo di volley rischia di andare a rotoli da anni, se non c’è già andata.

E allora credo che, comunque vada a finire, a queste ragazze e al loro allenatore sarebbe giusto dire grazie in anticipo, oggi.