Oggi Andrea Giani compie 50 anni. E fa un certo effetto, perché Giani è un po’ un eterno ragazzo, il Gianni Morandi del nostro sport, anche se neppure a lui il tempo ha risparmiato qualche capello bianco.

Non starò qui a ricordare tutto quello che ha vinto, che pure è qualcosa di pazzesco. Ma almeno per me, non è la cosa più importante, pur parlando di uno dei più grandi campioni dello sport mondiale di tutti i tempi.

Avendo avuto la fortuna di realizzare, 13 anni fa con Stefano Michelini, la biografia del Giangio (non si trova più, quindi posso scriverlo senza conflitto di interessi…), di cose da raccontare ne avrei parecchie. Mi limiterò a riportarne solo due, una è una notizia e l’altra una considerazione personale.

29 settembre 2001, prima giornata di campionato: Giani veste la maglia di Modena, che alla fine della stagione vincerà lo scudetto con Lorenzetti in panchina. Debutta a Taranto, e nelle prime battute del primo set si fa male. Tecnicamente, si rompe il ‘tendine estensore del quarto dito della mano destra’, una cosa che a me viene male anche solo a scriverla. Sta fuori un po’, dalla partita, poi rientra: gioca praticamente tutti e cinque i set con un dito che, raccontavano i compagni, non riusciva a tenere dritto. Se lo fa legare al dito vicino e gioca cinque set, vincendo la partita. Simone Santi, secondo arbitro in quel match, se lo ricorderà.

Ecco, se la scienza potesse studiarlo, bisognerebbe capire come possa un uomo avere una soglia del dolore come quella di Giani, che non ho mai riscontrato in nessun altro atleta, in 34 anni che scrivo di sport. In quello è stato davvero bionico, il nostro superman. Per tacere delle condizioni delle sue ginocchia, forse le più frequentate dagli ortopedici in tutto il volley mondiale.

La seconda è una riflessione personale: al di là dell’amicizia (una delle poche che considero vere tra quelle arrivate dal lavoro), a Giani dobbiamo essere tutti grati non per i suoi successi sportivi, non perché anche adesso da allenatore, avendo avuto l’umiltà di rimettersi a studiare, sta raccogliendo i frutti del suo lavoro. Al Giangio dobbiamo dire grazie perché dentro è ancora quel bambino che voleva solo giocare e che ha messo il massimo della passione in tutto quello che ha fatto. Senza scomodare il fanciullino del poeta, io ad Andrea invidio soprattutto quello.

Aver saputo mantenere intatta, pur attraversando tutte le esperienze che creano malizia e disillusione in chiunque lavori, quella passione. E’ una parola che gli piace tantissimo, e si capisce che ci crede davvero.

Penso che il suo segreto vero sia questo, e spiega perché tutti gli vogliamo bene. Anche gli avversari.