Roma, 3 aprile 2016 – James Owens, detto Jesse, era quell’americano nero che volava come avesse le ali, aveva 23 anni e lo sguardo vispo di chi aveva imparato tutto dalla vita. Luz (Ludwig) Long, tedesco, invece era il prototipo del ragazzo di buona famiglia, bellezza ariana, occhi azzurri, biondo con il ciuffo a onda, la pelle bianca, che sembrava ancora più bianca su quel maglione nero della tuta olimpica. Era l’orgoglio di Hitler, uno dei motivi di orgoglio, ma solo fino a quel giorno. Dopo no, perché quell’atleta aveva un difetto imperdonabile: era vaccinato contro il razzismo. Fino al punto che fu proprio lui, Ludwig, a insegnare a quel nero come vincere. Si può arrivare a tanto? Proprio in quelle Olimpiadi del ’36 nella Berlino nazista che avrebbero dovuto celebrare la superiorità della razza bianca. E sotto gli occhi furenti del Fuhrer mentre quei due, il bianco e il nero, parlavano tra loro da amici, o anzi no, era Luz che parlava, quel nero americano per quel che avrà potuto capire ascoltava ammirato e divertito e anche il tedesco era contento, si vedeva, ma contento di che?, vista la vergogna di quella foto sciagurata con quel podio maledetto, con in cima al primo posto il nero che aveva fatto un salto in lungo come nessuno era mai riuscito a fare prima. E dietro di lui al secondo posto quel tedesco con il braccio destro teso ma teso poco e senza convinzione come di chi lo fa perché ha da farlo. Bruciante sconfitta. Nonostante la Germania alla fine arrivasse in testa con 88 medaglie, davanti agli Stati Uniti con 56 medaglie e all’Italia terza con 22.

MA SI SA POI perché finì in quel modo, in quel giorno che ora torna a vivere in un bel film di Stephen Hopkins, in programmazione nelle sale italiane. L’americano aveva già sbagliato due salti di qualificazione, quando gli si avvicinò Long che aveva già fatto 7,87 e gli dette il consiglio decisivo. Gli disse: «Non indugiare, parti prima appena sei sulla pedana». Così fece Jesse e volò per 8 metri e 60 centimetri, come non era mai successo nel mondo. E fu la sua quarta medaglia d’oro insieme a quella per i 100 metri, per i 200 e per la staffetta dei 4×100.

Le ambizioni di Hitler furono umiliate perfino in modo simbolico da quel nero e da quel bianco, perché dimostrarono di non saper essere nemici, nonostante le differenze che li dividevano. E rimasero amici tutta la vita. E fu quell’amicizia a dimostrare come il regime fosse fragile come un castello di carta. Perché il Fuhrer aveva mobilitato i migliori, aveva chiesto all’architetto Albert Speer di fargli il più grande stadio del mondo per centomila e un campo da parate per mezzo milione di spettatori. E la cerimonia, il primo agosto, fu il trionfo del regime con 120mila tedeschi che gridavano frenetici «Heil Hitler». Cerimonia culminata con l’ingresso nello stadio del tedoforo, l’ultimo di 3.075 staffettisti che si erano dati il cambio da Atene a Berlino, procedura che da allora si sarebbe ripetuta in tutte le Olimpiadi seguenti. E per dar prova dell’ efficienza teutonica ogni mattina usciva in 14 lingue un quotidiano, l’Olympia Zeitung in 300mila copie.

MA A SCIUPARE la festa ci pensò quel nero dell’Alabama. Nonostante i prodigi compiuti da Leni Riefenstahl, la regista incaricata di celebrare gli ariani nel suo celebre film “Olympia”. Infatti nella pellicola non c’è traccia di quell’oro al nero americano, c’è il bel volto di Long e appena una sagoma nera. SI DISSE che Hitler si era rifiutato di stringere la mano a quel nero americano ma la cosa andò un po’ diversamente. Il cerimoniale non escludeva ma non prevedeva contatti tra gli atleti e il Fuhrer e questi si limitò a sventolare la mano, saluto a cui l’americano rispose in modo militare. La verità è che a Jesse la peggiore accoglienza fu riservata a casa sua. «E fu il presidente Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrarmi e non mi inviò nemmeno un telegramma», scrisse nelle sue memorie. Erano prossime le elezioni e il presidente democratico non volle rischiare i voti del sud. Per reazione Jesse si mise a fare propoganda per i repubblicani e solo postuma gli fu assegnata la medaglia d’oro del Congresso da George Bush nel ’90. Di quel giorno a Berlino rimase come miglior risultato l’amicizia tra Jesse e Luz, grandi campioni ma che non ebbero un futuro luminoso. Jesse ritornò nella sua povertà, tentò il cinema senza successo, fece il benzinaio e tristi spettacoli paracircensi correndo contro cavalli e cani per 5 centesimi di dollaro per ogni spettatore. Morì di cancro nel 1980, a 66 anni, e quattro anni dopo Berlino gli intestò una strada. LUZ INVECE morì in Sicilia il 14 luglio del ‘43, colpito a morte dagli americani che erano sbarcati sulla spiaggia di Scoglitti, vicino Comiso. Uno dei tanti morti in guerra, fu la Croce Rossa nel ’50 a capire chi era stato quel sergente della Luftwaffe seppellito in una fossa comune. Pochi giorni prima di morire aveva scritto all’amico americano che «le nazioni dovevano abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore», e si era da lui congedato con questa raccomandazione: «Dopo la guerra vai in Germania e ritrova mio figlio». Jesse esaudì il desiderio, andò in Germania e trovò Kai, il figlio dell’amico. Long riposa nel cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia, provincia di Catania, nella fossa comune 2 piastra E.