Tante le regioni colpite in questi mesi da inondazioni inattese. Meteo stranito certo, ma soprattutto acqua e fango che riconquistano posizioni su mattoni e cemento. Lungo e secolare è il rapporto di amore-odio delle popolazioni italiche con fiumi spesso nemici, apportatori di vita ma anche di piene improvvise, e con mari burrascosi e voraci di spiagge e scogliere. Ma l’incrinato rapporto dell’uomo con la natura ha radici profonde e millenarie. Una storia emblematica, che parrebbe favola se non fosse documentata da vicende dolorose, è quella del lago scomparso del Fucino. Occorre andare, come diceva Nicolò Machiavelli, “infin che in Abruzzo”, terra da secoli nascosta e chiusa in una riservatezza ostinata e dura, come i suoi monti che si alzano impervi e improvvisi, tanto vicini al mare.
Si celebrerà in gennaio il centenario di uno dei cataclismi più devastanti della nostra storia, il terremoto di Avezzano. Trentamila morti nella zona colpita, ad Avezzano città novemila su undicimila abitanti. Nei paesini dintorno c’è ancora qualche centenario che ricorda: persone sopravvissute per cinquanta giorni sotto terra, nutrendosi di barbabietole e acqua. Già, l’acqua del Fucino. Ambita e rifiutata, sottratta a forza per esigere dalla terra coltivazioni che oggi sono fra le migliori del mondo: patate, mais, carote. Spaziano la’ dove, maestoso, stava il terzo lago più vasto d’Italia. I romani amavano villeggiarvi e anche praticarvi la naumachia, ma già loro, per bonificare eccessi paludosi, avevano realizzato un progetto ambizioso, un sistema di canali che parzialmente rendesse alle campagne porzioni di terreno. Ma già nel 52 dopo Cristo il Fucino si ribellava. Durante il varo dell’opera crolla il palco dell’imperatore Claudio e un terremoto costringe i romani che impiegavano (ancora il numero trentamila) operai a interrompersi. Quasi duemila anni dopo, incurante dei cattivi auspici, ci pensa il ricchissimo principe Torlonia a esagerare. Il lago viene completamente prosciugato. I pescatori, privati del loro principale mezzo di sostentamento, devono trasformarsi in agricoltori, ma passeranno cento anni prima che le terre vengano tolte ai nobili e distribuite ai Comuni. Ancora oggi, il nome Torlonia non è amato da queste parti. E la tradizione orale ha tramandato, di generazione in generazione, l’eco di un sospetto. Che quel maledetto terremoto che si portò via tre quarti di una popolazione già povera, fosse il ruggito di una valle ferita, scavata e privata di un patrimonio naturale che l’aveva abitata per millenni. Certo, l’agricoltura oggi è florida, ma tutti rimpiangono gli ulivi scomparsi, e sembrano portare nella pelle e nell’anima il peso di una trasformazione climatica così potente da sradicare e mutare il volto di una intera regione. Il maestoso Velino Sirente, coi suoi oltre duemila metri, assiste ancora muto allo scorrere delle stagioni. C’è stato anche il distruttivo terremoto dell’Aquila, ad aprire un’altra ferita di nuovo profonda. E nelle giornate autunnali di nebbia, quelle di quiete intensa, per un gioco ottico o forse per bagliori di memoria, capita che, osservando dall’alto, sembra che il lago ucciso occupi ancora la sua immensa valle. Li accanto, la dea dei Marsi Angizia continua a ricevere l’omaggio di rari turisti nella Pompei abruzzese, la bella Alba Fucens. Ma forse le è stato offerto un sacrificio eccessivo e non richiesto. A chi, negli anni, propone di ricreare tutto, o parte del lago, viene dato del pazzo. Troppi ormai gli insediamenti edilizi e agricoli nella piana. Eppure la nostalgia di un’immota immensità fa parte del dna della gente che abita quel vuoto. L’acqua perduta scorre da qualche parte, gli abruzzesi dicono che è lì, nei cunicoli di Claudio, governata da un sistema di vasi comunicanti. Altri pensano che si sia ormai persa nelle rocce e nella terra della Marsica. Ma la sensazione che possa prima o poi riemergere è palpabile e straniante. Anche i giovani del posto, sanno che una parte del loro dna è mutata insieme alla natura, e non rinunciano alla memoria. Ora lavorano indefessamente e aspettano, il 13 gennaio, il premier Renzi e, sperano, anche Papa Francesco, per rendere omaggio a quei trentamila morti e ai sopravvissuti che seppero ricostruire un posto e un’identità, sia pure tanto diversi da un tempo.