Ci sono stagioni perfette per ascoltare determinate canzoni. Sembra quasi uno scherzo del destino che Gianmaria Testa se ne sia andato proprio quando la primavera sta iniziando a far sentire i suoi effetti benefici. Perché forse è proprio questo il periodo migliore per farsi trasportare tra le colline che descriveva nelle sue canzoni e che in qualche maniera rappresentavano sogni di ascesa sociale, desideri e rabbia. Nervi, muscoli, sangue. Proprio come era stato per Pavese (“Le colline insensibili che riempiono il cielo, sono vive nell’alba”). O anche per Fenoglio. Inutile scomodare (di nuovo) il ricordo delle tante frequentazioni nobili di Testa e delle innumerevoli connessioni che si aprirebbero, citando Langhe, Piemonte, etc. La sua terra. Terra, comunque, di passaggio per arrivare in Francia, il Paese che ha inventato lo sciovinismo ma che di fronte ai suoi primi concerti all’Olympia di Parigi, riconobbe la sua grandezza, tanto da battezzarlo chansonnier. Più di un’etichetta linguistica, da prodotto geograficamente registrato. O da incollare sopra un nome o una musica. Ora tutti lo ricorderanno come cantore degli ultimi, dei migranti (“Dall’altra parte del mare”), tutto giusto certo. Ma provate solo per un istante a guardare fuori dalla finestra, ascoltando “Dentro le tasche di un qualunque mattino”, con la primavera che si fa finalmente sentire e una giornata ordinaria, proprio come nella canzone, diventerà straordinaria. Sta qui la magia di Gianmaria Testa. E non è poco, è tutto.