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Firenze, 17 marzo 2018 – Segnalando l’uscita del libro di Alberto Russo Previtali “Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto”, Franco Cesati Editore.

Notava Montale in un suo memorabile intervento dedicato a “La Beltà, che in Andrea Zanzotto si esprime “il tragico dissidio tra quella che i cristiani dicono anima e ciò che gli scienziati dicono psiche”. Indicando questo nodo, Eugenio Montale coglieva nel segno circa attualità e futuri sviluppi dell’opera del poeta, illuminandone tecniche e strategie messe in atto nel rispondere per via scrittoria a tale rilevazione, a tale insopito, rinascente bisogno di accertamento: “Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia”.

È così, in effetti, che Zanzotto si muove tra i materiali fonico-immaginativi che affollano il suo formidabile e interminabile laboratorio di poeta novecentesco fatto di sostanze semantiche e presemantiche, combinazioni grammaticali e pregrammaticali, soluzioni linguistiche e prelinguistiche, costantemente alla ricerca della pietra filosofale che gli permetta di riprodurre in versi la fabula straniante individualissima che chi scrive sta vivendo. Il poeta perviene in tal modo – cito ancora da Montale – ad una “poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore”, bilanciandosi tra individuazione di se stesso e relazionalità con il reale mediante una sorta di “mobilità insieme fisica e metafisica”.

Una “mobilità insieme fisica e metafisica”. Sta di fatto che, nel leggere l’alta, storicamente autorizzata e paradigmatica poesia di Zanzotto viene un momento in cui l’effetto dello stupefacente poetico-espressivo raggiunto e comunicato, disposto anche in chi lo recepisce a tutte le possibili arditezze acrobatiche per via di interferenze e sprofondi semantici, nessi analogici e simultaneità, cessa, si annulla, e la mente, sgombra di lusinghe ammiccanti e fascinazioni, riacquista di colpo piene facoltà coscienziali: facoltà accresciute, potenziate dall’esperienza della quale è stato al centro, sperimentando di persona, all’apice della fruizione artistica consentita, l’ontologica compresenza dei due livelli.

In altri termini, quando le parole di Zanzotto “lasciano”, è inevitabile il subentro o meglio il valorizzato ritrovamento del giudizio, dell’istanza razionalistica alla chiarificazione critica di ciò che la visione trasfigurante, imponendosi magicamente con i suoi tratti e i suoi specifici attributi fascinatori all’attenzione, accantonava o pretendeva per un momento almeno di potere omettere. Un analogo, quintessenziale e sincretistico percorso tra emozione e riflessione, Es e coscienza, che ci riconduce in campo storiografico-artistico a quell’ineludibile bivio novecentesco tra l’ordine e la pulsione e nell’universo espressivo del poeta ai suoi magnifici cortociruiti della scrittura in cui tout se tient.

Marco Marchi

(Perché) (Cresca)

Perché cresca l’oscuro
perché sia giusto l’oscuro
perché, ad uno ad uno, degli alberi
e dei rameggiare e fogliare di scuro
venga più scuro –
perché tutto di noi venga a scuro figliare
così che dare ed avere più scuro
albero ad uniche radici si renda – sorgi
             nella morsura scuro – tra gli alberi – sorgi
dal non arborescente per troppa fittezza
notturno incombere, fumo d’incombere;
vieni, chine già salite su chine, l’oscuro,
vieni, fronde cadute salite su fronde, l’oscuro,
succhiaci assai nel bene oscuro nel cedere oscuro,
per rifarti nel gioco istante ad istante
di fogliame oscuro in oscuro figliame
Cresci improvviso tu: l’oscuro gli oscuri:
e non ci sia d’altro che bocca
accidentata peggio meglio che voglia di consustanziazione
voglia di salvazione – bocca a bocca – d’oscuro
Lingua saggi aggredisca s’invischi in oscuro
noi e noi lingue-oscuro
Perché cresca, perché s’avveri senza avventarsi
ma placandosi nell’avventarsi, l’oscuro,
Ogni no di alberi           no di sentieri
no del torto tubero no delle nocche
no di curve di scivolii lesti d’erbe
Perché cresca e si riabbia, si distolga in spazi
in strazi in paci in armi tese all’oscuro –
mano intesa all’oscuro, mano alla bella oscura,
dita di mano mai stanche
di per vincolarsi intingersi addirsi all’oscuro –
Lingue sempre al troppo, al dolcissimo soverchio
d’oscuro agglutinate, due che bolle di due –
clamore, alberi, intorno all’oscuro
clamore susù fino a disdirsi in oscuro
fino al pacifico, gridato innesto, nel te, nell’io, nell’oscuro
Innesto e ritorni di favore, fòmite oscuro
oh tu, di oscuro in oscuro innestato, tu
protratta detratta di foglia in foglia/oscuro
di felce in felce lodata nel grezzo nel rifinito d’oscuro
Ma vedi e non puoi vedere quanto è d’oscuro qui dentro
hai bevuto lingua e molto più e sentieri e muschi intrusi
ma ti assicuri ti accingi ti disaccordi
ti stratifichi, lene, benedetta, all’oscuro
Non memoria, millenni e miglia, stivate nel fornice
sono un dito dell’oscuro, levalo alla bocca, rendilo nocca
rovina e ripara l’oscuro, così sarà furto e futuro
Troppo dell’inguine, del ventre, di ghiande e ghiandole
s’inguina in oscuro, genera generi, intridi glie
Precipitare fuori bacio, coagularsi, venire a portata
d’ogni possibile oscuro
Possibili alberi, alberi a se stessi oscuri
mai sazi ma d’accedere a frotte
a disorientarsi a orientare, lievito intollerabile
Limo d’oscuro che dolce fòrnica pascola
nei fornici dove s’aggruma di fughe     (l’oscuro)
                E pluralità innumerabile di modalità
                dell’oscuro, secarsi in innumerevoli – non due –
                                      d’oscuro sessi
Qui in freccia, all’oscuro, immanere
Là in volta, al’oscuro, esalarsi
Possibile, alberi – Possibile, oscuri, oscuro,
                 Oscuro ha sé, sessuata, umiltà,
                                                     tracotanza, pietà.
Andrea Zanzotto 

(da Il Galateo in Bosco, 1976)