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Firenze, 10 dicembre 2022 Ricordando che il 10 dicembre 1830 nasceva ad Amherst, nel Massachusetts, la grande Emily Dickinson.

Per pochi altri poeti come per Emily Dickinson valgono e trovano compimento in un’opera le ipotesi formulate da Montale in una intervista del 1972: ipotesi secondo le quali “solo gli isolati comunicano”. Parole che anche un altro importante poeta italiano del Novecento, Andrea Zanzotto, ha fatto proprie, elevandole nel suo stesso biografico consistere a Pieve di Soligo, un paese del trevigiano con il suo paesaggio, a condotta di vita e inverandole, quel che più conta, in una produzione letteraria complessa quanto decisiva, implicante e determinante.

Ed è così che anche Zanzotto, articolando sinteticamente il discorso su base testimoniale, può illustrarci in maniera esemplare il paradosso dell’atto poetico, “originato – sue parole cui non mi para ci sia niente da togliere o aggiungere – da un estremo sentimento della irripetibilità, dell’unicità proprie dell’individuale, ma anche di un prepotente senso di necessità di partecipare ad altri questa ‘unicità’ e di riceverne quella altrui“. Il poeta colto sul crinale tra io e mondo della sua espressione, del suo pressante bisogno di affidarsi a parole ogni volta osmoticamente avvertite  miracolo dell’arte  sue e non sue.

Di tutto questo l’opera di Emily Dickinson, qui mirabilmente rappresentata da un testo come Because I could not stop for Death, costituisce una prova inconfutabile, radiosa: perfettamente in se stessa risolta e come tale ancor oggi universalmente riconoscibile, da affiancare per bellezza e verità alla certificazione che proprio della solitudine la poetessa americana ci ha lasciato in una delle sue lettere (spesso poesia pura anch’esse): “Dipingerei un quadro capace di commuovere fino alle lacrime, se avessi la tela adatta, e la scena sarebbe la solitudine, e le figure solitudine, e in ogni luce, ogni ombra una solitudine. Potrei empire una sala di paesaggi così pieni di solitudine che gli uomini vi sosterebbero davanti a piangere, e poi si affretterebbero verso le loro case, grati di ritrovarvi un essere amato”.

Marco Marchi

Poichè non potevo fermarmi per la morte

Poichè non potevo fermarmi per la morte
lei gentilmente si fermò per me
La carrozza portava solo noi due
e l’immortalità

Andavamo piano, ignorava la fretta
e io avevo abbandonato
il mio lavoro e il mio riposo
per la sua cortesia

Passammo oltre la scuola
dove i bambini nell’intervallo facevano la lotta in cortile
Passammo campi di grano che ci fissavano
Passammo oltre il tramonto

o piuttosto fu lui a oltrepassarci
Scesero rugiade tremanti e gelide
solo garza il mio vestito,
il mio mantello di tulle

Ci fermammo a una casa
che sembrava un gonfiore della terra
Il tetto era appena visibile
il cornicione sepolto nel suo oro

Da allora sono secoli eppure
sembrano più brevi del giorno che intuii
per la prima volta che le teste dei cavalli
erano rivolte all’eterno.

(traduzione di Natalia Ginzburg)

Because I could not stop for Death

Because I could not stop for Death –
He kindly stopped for me –
The Carriage held but just Ourselves –
And Immortality.

We slowly drove – He knew no haste
And I had put away
My labor and my leisure too,
For His Civility –

We passed the School, where Children strove
At Recess – in the Ring –
We passed the Fields of Gazing Grain –
We passed the Setting Sun –

Or rather – He passed Us –
The Dews drew quivering and Chill –
For only Gossamer, my Gown –
My Tippet – only Tulle –

We paused before a House that seemed
A Swelling of the Ground –
The Roof was scarcely visible –
The Cornice – in the Ground –

Since then – ‘tis Centuries – and yet
Feels shorter than the Day
I first surmised the Horses’ Heads
Were toward Eternity –

Emily Dickinson

(1863; da Poesie)

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