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Firenze, 1 agosto 2020 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919).

Potremmo definire la testimonianza poetica di Primo Levi con una sorta di preliminare paradosso. Una poesia illuministica, quella di Levi, eticamente e civilmente sostenuta, del tutto degna di un’eredità torinese-gobettiana, per cui la poesia classica, la più antica, quella greca e latina per intendersi, quella più a monte, di intervenute complicazioni storiografico-letterarie legate alla modernità, si configura sostanzialmente come il suo sapore più apprezzabile e prima ancora come la sua più naturale pietra di paragone, la sua risorsa più affidabile, il suo nutrimento certo cui guardare.

La poesia di Levi si pone infatti, con naturalezza, sulla scia di quella che un altro scrittore e poeta contemporaneo a Primo Levi, Sergio Solmi, avrebbe definito la “poesia senza tempo”, pur non potendo sottrarla, nel trattamento dei temi eterni del bene e del male, dell’amore e della solitudine, dell’innocenza e della corruzione che la connotano, ad una riconoscibile storicità di riferimento, linguistica e culturale, che ne sottolinea caso mai, articolando e internamente coniugando, la perdurante validità tematica e di messaggio.

È uno splendido testo poetico di Mario Luzi – Seme, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini – a suggerirci invece, ancora preliminarmente, l’idea tematica delle “due”, le “sole”: la vita e la morte, che protagonisticamente e agonicamente sovrintendono ai destini dell’uomo, li determinano, intrecciandosi, affrontandosi ed alternandosi. Ed è attraverso queste stilizzatissime ipotesi e attraverso i puntuali rilevamenti e le puntuali agnizioni che sperimentalmente, concretamente e, pensando anche al Levi chimico, scientificamente le inverano, che la poesia di Primo Levi investe, testimoniandoli, l’uomo e l’essere al mondo dell’uomo: forte di un’esperienza mortuaria pregressa, algida, fangosa e notturna, come quella dei Lager tedeschi, ma non abdicando, tramite ancora quella tragica vita-morte anticipatamente provata, alla speranza di potere ancora sperare, di potere di nuovo tornare a vivere, a “Camminare liberi sotto il sole” (è il verso conclusivo di 25 febbraio 1944), secondo quei fronteggiamenti e più ancora quei già confusi, instabili e già indifferenziati impasti di vita, morte e ancora vita, che sono temi ineludibili della poesia e, insieme, costanti dell’esistere.

Risulta in questo senso emblematico il sostanziale sincretismo assolutizzante su cui converge la scansione temporale interna di un testo giustamente noto come La bambina di Pompei. Ma preme prima di tutto notare come la poesia subentri sì, in Levi, secondo quanto suggerito da un titolo suggestivo e azzeccato, citazionale (dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge con i versi del prelievo poi citati più ampiamente come esergo in I sommersi e i salvati) “ad ora incerta”, ma non secondo la condizione rilkiana sottesa a una dichiarazione come quella ricavabile dal poeta delle Elegie duinesi: “Adesso la mia mano scriverà qualcosa che io non sono in grado di capire”.

“Ad ora incerta”, in altri termini, ma dovendo rinunciare a credere che è proprio l’incertezza una plausibile marca di riconoscimento dell’operare in versi, una alternativa forma di certezza “altra” nell’affidarsi ad essa, alle sue obliquità e alle sua ambiguità, ai suoi probabilismi quanto più ignorati e inattesi, avventurosamente imprevisti e sfuggenti tanto più costitutivi, conclusivamente efficienti; e “ad ora incerta”, ritrovando quasi per magia l’immagine della mano che scrive nel libro di Levi poeta: con “questa / Mano che scrive” testualmente, curiosamente corrispondente nella chiusura di Nel principio.

Sta di fatto che uno status ispirativo come quello certificato da Rilke, input alla scrittura e suo continuo sottofondo linguisticamente autorizzante e configurante – uno status culturalmente culminato nel Novecento, come si sa, nelle poetiche tra loro diversissime ma in questo convergenti del surrealismo e dell’informale – in Levi non trova spazio. Si afferma invece la costituzione di un messaggio in qualche modo già enucleato e sufficientemente precostituito, e in questi termini da spartire socialmente, una volta formulato, in chiari termini di comunicazione: stagliandosi con contorni abbastanza netti fin dalla preliminare individuazione del tema poetabile, fin dal balenare più arretrato e primigenio di un’idea compositiva, di un’“occasione”.

Marco Marchi

La bambina di Pompei

Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra
ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
che ti sei stretta convulsamente a tua madre
quasi volessi ripenetrare in lei
quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
è filtrata a cercarti per le finestre serrate
della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
a incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
agonia senza fine, terribile testimonianza
di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
la sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
tristi custodi segreti del tuono definitivo,
ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

Primo Levi

(da Ad ora incerta, in Opere, Einaudi 1997)

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