VEDI I VIDEO “Ho paura. Lo ripeto a me stesso” “A Pier Paolo Pasolini”  , Dario Bellezza parla della poesia e legge suoi testi , “Andiamo a rubare” , Sulla tomba del poeta

Firenze, 1 aprile 2021 Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della morte di Dario Bellezza (Roma, 31 marzo 1996).

“Che poeta è Dario Bellezza?” si domandava a suo tempo Alberto Moravia nel recensire Morte segreta, il libro di Bellezza uscito nel 1976 presso Garzanti, vincitore quell’anno del Premio Viareggio. “È un poeta dalla coscienza, diciamo così, plurima, cioè un poeta che risale alla coscienza di se stesso e da questa alla coscienza della coscienza di se stesso e così via e così via, un po’ come in certi negozi nei quali gli specchi si rispecchiano a vicenda gli uni dentro gli altri, all’infinito”.

Un gioco di specchi protratto nel tempo e nello spazio unicamente per il bacio di Narciso, potremmo interpretare, ed Hauser ci verrebbe in aiuto sottolineando le prerogative di accessorio manieristico che competono alla specchio al pari della maschera, qualora esso si dimostri sottoposto all’uso bizzarro e stravolgente che ne fece il Parmigianino per un suo autoritratto della giovinezza.

Affascinati dalle suggestioni di un simbolo si pensi in questa luce all’impiego di due figure retoriche prevalenti nella poesia di Dario Bellezza come l’ossimoro e soprattutto l’annominatio. È soprattutto quest’ultima che a livello di stile determina quella continua, implacabile e irrefrenabile gibigianna nella poesia della contraddizione e della irrealtà del “manierista” Bellezza: un poeta dolorosamente ed inevitabilmente perduto nel mare della soggettività, impegnato “col niente in mano a potare, l’impossibile, / a mietere la disgrazia di sapersi solo, / abbandonato relitto in un mare in tempesta”.

Paradossalmente, infatti, anche dopo che la confessione autobiografica del poeta si è sforzata di svolgersi all’insegna della massima apertura, alla domanda di chi fosse Dario Bellezza si può rispondere solo in maniera allusiva, per approssimazioni, forse proprio perché per lui stesso, come fu per Amleto, rimaneva in gran parte oscuro e incomprensibile il mistero di chi effettivamente fosse, di dove si situasse il confine tra ciò che in lui era realtà e finzione, libertà e condanna.

Così l’“urlo” di Bellezza, volto nei suoi versi ad esibire violentemente la problematicità di una condizione di diverso, corre il rischio di cristallizzarsi in flashes di silenzi mimati: come di fronte a certi ritratti del Bronzino o del Salviati, che danno l’impressone di non poter essere decifrati fino in fondo e conservano sempre un ampio margine di enigmatico che rimanda continuamente ad altro, anche quando essi farebbero volentieri a meno della maschera impenetrabile dietro cui si nascondono. E non apparirà strano che alle pareti della casa che Pier Paolo Pasolini immaginava per sé in un sogno poetico dovessero essere appesi “antichi quadri, di crudeli manieristi / con le cornici d’oro, contro / gli astratti sostegni delle vetrate”.

Marco Marchi

Ho paura. Lo ripeto a me stesso

Ho paura. Lo ripeto a me stesso
invano. Questa non è poesia né testamento.
Ho paura di morire. Di fronte a questo
che vale cercare le parole per dirlo
meglio. La paura resta, lo stesso.

Ho paura. Paura di morire. Paura
di non scriverlo perché dopo, il dopo
è più orrendo e instabile del resto.
Dover prendere atto di questo:
che si è corpo e si muore.

Dario Bellezza

(da Morte segreta, Garzanti 1976)

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