Firenze, 30 settembre 2019 – Podio tutto italiano, questo del mese di settembre, e con quattro presenze e non tre, dato che sul gradino più alto di esso prendono posto, alla pari, Mario Luzi ed Eugenio Montale, rispettivamente con Le torri altere. 11 settembre con Mario Luzi e I limoni di Montale. Oggi ripubblichiamo, accompagnato dai vostri commenti, il post montaliano. Al secondo posto, come già sapete, si classifica Pier Paolo Pasolini con la sua splendida poesia dedicata a Maria Callas (Callas Day con Pier Paolo Pasolini) e un po’ a sopresa al terzo, , vicino a colui che come poeta lo scoprì, Dario Bellezza (Il figlio di Dario Bellezza): una notizia inaspettata che non può che farci piacere, dato che Bellezza risulta oggi un poeta non ricordato e apprezzato come un tempo lo è stato e come in effetti meriterebbe.

Tra i vostri commenti luziani ci piace segnalare quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Matteo Mazzone. Nell’ordine: “La musica della sintassi svolge, in questa lirica di Montale, un discorso di programma che si apre ad una interlocuzione doppia: il tono confidenziale dell”ascoltami’ iniziale è rivolto insieme ad un lettore e, più in grande, allude ad una tradizione, ad una storia delle forme della poesia. L’intonazione prospettica del componimento sottolinea il carattere fortemente dialettico del ragionare in versi di Montale:il carattere, insieme, di continuità verso la tradizione, rispetto alla grande rottura ungarettiana andata in scena con l”Allegria di naufragi’, e insieme l’abbassamento tonale del linguaggio, la modulazione di un tono nuovo, possibilistico-esistenziale, che costituirà una delle linee portanti, egemoniche del novecento posteriore a Montale. La rottura è frutto di questa ripresa-superamento della tradizione che, negli stessi anni, un grande poeta come Eliot definirà nel saggio ‘Stile e tradizione’. L’emozione che ci punge rileggendo questo componimento è data proprio dalla sua grande distanza rispetto al nostro tempo: frantumato che frantuma linguaggi forme, trita sintagmi, spezzetta ragioni afasiche… qui, ancora, l’alto ragionare da ginestra leopardiana affronta il negativo ed, ancora, lo contiene caparbiamente”; “Sono così tante le suggestioni che s’impongono alla coscienza nel leggere Montale e nel riflettere sulla sua stupefacente produzione lirica, che mi limiterò ad esprimere, come semplice fruitrice di essa, senza nessuna pretesa esegetica, alcuni miei convincimenti, alcune idee ed emozioni che mi suscitano i versi di Montale in generale e in particolare questa poesia. A me piace tanto il Montale di ‘Ossi di Seppia’, perché lo sento vicino alla mia sensibilità, al mio modo di essere e di sentire; comprendo le sue contraddizioni, la sua attitudine a cogliere il lato oscuro delle cose, il suo scetticismo e anche quella sua imperturbabilità di osservatore e di contemplatore della realtà; comprendo tutto questo alla luce di una mancanza di fede cui affidarsi: ‘Per me / l’ago della bilancia / sei sempre tu. / M’hanno chiesto chi sei. / Se lo sapessi / lo direi a gran voce. / E sarei chiuso tra quelle sbarre donde non s’esce più’. In particolare però, adoro il poeta metafisico che è Montale, quello che cerca di penetrare la verità universale nelle cose, nella vita e nei silenzi; mi immergo nei suoi paesaggi reali e simbolici, nella loro totale astrazione dal tempo, nell’assolutezza delle sue visioni. Ammiro la schiettezza del poeta filosofo che sconfessa i ‘poeti laureati’ che si cimentano e si pavoneggiano nei loro orpelli culturali alla ricerca del vacuo elogio, mentre egli – pur nell’ansia e nel tormento – ama tutto ciò che è semplice natura acquietante, trovando la vera ricchezza da poveri nell’odore della terra e nell’effluvio dei fiori del limone, sempre a un passo dal carpire il mistero della vita, investigando su qualche errore della natura, individuando un pertugio, ‘l’anello che non tiene’, che sveli l’essenza della vita terrena: momento in cui anche gli esseri umani apparirebbero a un tratto come inquiete divinità… Attimi… Poi il ritorno al tedio usato e alla malinconia della cupa stagione, ma basta intravvedere in un cortile la luce gialla dei limoni che pendono come lampade dalla loro pianta, per sperimentare fugacemente la rarità dell’estasi, la percezione rapida e inafferrabile della bellezza e della pienezza”; “La poesia di Montale si caratterizza, da un lato, per il rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante e, dall’altro, per una ricerca di una rinnovata voce, pur sempre tradizionale, un abbassamento tonale del lirico, che si fa narrativo specchio sociale, fatto attuale tradotto in figure e in simboli, dove anche il linguaggio sublime – che non scompare del tutto nella frequente presenza di preziosismi lessicali – subisce uno slittamento diafasico, dal formale tout court all’insediamento di un informale bilanciato, tenero. Ora il filosofare montaliano, il suo pensiero poetante trovano coraggio a esporsi nel silenzio assordante della ricerca, dell’indeterminatezza umana ed esistenziale: ora è bello lo scoprire una verità causale, demiurgica e confortante; un’epifania (il)logica, razionalmente concepibile, che ci aspetta tutti in fondo a un varco. Il varco, appunto: l’unico “attraversamento” creatosi tramite una particolare congiunzione, lo stato di grazia, rarissimamente rassicurante perché implicito, dis-illusorio, verace”.

Buon ottobre a tutti, con nuovi poeti e nuovi testi!

Marco Marchi

I limoni di Montale

Firenze, 12 settembre 2019 – Ricordando che il 12 settembre 1981 moriva a Milano Eugenio Montale.

Montale muove nel suo scrivere versi dal non sentirsi in sintonia con la vita, con il mondo e con se stesso. La sua poesia del disaccordo, dell’interrogazione, dell’insoddisfazione e dell’incertezza, si accorda bene a quel più generale quadro della letteratura italiana del primo Novecento che sul piano della narrativa presenta i grandi nomi di Svevo, Pirandello e Tozzi. Non sarà un caso che Montale sia stato uno dei responsabili della tardiva scoperta del grande Italo Svevo, e questo probabilmente sulla base di una concezione dell’esistenza che, nonostante le diverse età e le diverse esperienze maturate, i due scrittori avevano in comune.

Giacomo Debenedetti ha parlato, a proposito di Svevo, Tozzi e Pirandello, di «romanzo interrogativo»: romanzo nuovo, innovativamente avanzato e proiettato al futuro, in quanto fuori dalle facili forme di presunta esplicabilità sperimentate ed autorizzate dalla narrativa precedente. C’è una crisi in atto del naturalismo: una crisi che vede decadere la possibilità di spiegare il mondo secondo le tradizionali categorie di causa e di effetto e vede invece prepotentemente affacciarsi un interrogativo: la letteratura della crisi del naturalismo è una letteratura modernamente alla ricerca del senso. Mentre gli scrittori di tipo naturalista e verista scrivevano perché sapevano spiegare la realtà (e lo dimostravano concretamente, con il ricorso teoricamente sostenuto ed efficiente alle risulanze scientifiche del positivismo), i narratori nuovi del Novecento scrivono perché non sanno più spiegare il reale.

Ecco che nella pagina di questi scrittori si insinua un’incertezza, un’instabilità di prospettive, una difficoltà di movimento. L’ambito della poesia coeva non è molto distante da queste intervenute difficoltà e da queste nuove esigenze profilatesi. Leggendo le poesie del primo Ungaretti e quelle del primo Montale ci accorgiamo che anche nella produzione poetica di questi autori domina un’inquietudine: la realtà non offre più quelle certezze di cui si faceva portavoce nell’ottica naturalista ottocentesca. E l’insicurezza investe anche l’interiorità dell’uomo. Gli scrittori citati portano alla ribalta i temi alternativi di una ricerca psicologica che culmineranno nella scoperta dell’inconscio e della psicoanalisi di Freud, che dimostrano che l’uomo è qualcosa di molto più complesso e misterioso di quanto si fosse immaginato fino a quell’epoca.

La poesia di Montale fin dagli Ossi di seppia è la poesia della disarmonia, della dicibilità al negativo dell’esistere, a partire dalla definibilità per via negativa della poesia stessa. Montale conduce un discorso molto rigoroso e molto personale in cui coinvolge tutte le risorse storiograficamente testabili appannaggio del linguaggio poetico: tutte le risorse del senso e tutte le risorse del suono che una storia della poesia italiana ha condotto fin lì, già differenziandosi sostanzialmente in questo bilanciamento dalla strada coeva di Giuseppe Ungaretti. Poco importano, a ben vedere, i poco cordiali rapporti biografici intercorsi tra i due poeti, che non si sono mai troppo amati perché concorrenziali nell’immagine del più grande poeta italiano del Novecento. Importa invece notare come effettivamente, leggendo i testi dei due poeti a confronto, le vie si divarichino.

E si divaricano sensibilmente: fin dal modo di esordire sulla scena letteraria. Ungaretti debutta poco prima di Montale e lega il suo nome ad Allegria di naufragi, del 1919, che a sua volta sussume i componimenti del precedente Porto sepolto, editi soltanto in 80 copie nel 1916. Montale sei anni dopo, nel 1925, pubblica la prima edizione di Ossi di seppia. Le strade si presentano subito diverse, nel senso che Ungaretti pensa con fiducia di tipo avanguardistico di poter sillabare la lingua italiana dando espressione al suo nuovo modo di porsi in contatto con la realtà: la possibilità intravista dal poeta di poter fare a meno in qualche modo di una tradizione della poesia italiana giunta fino agli anni della prima guerra mondiale, e la possibilità alternativa, in una situazione dolorosamente eccezionale, tragicamente straordinaria come la guerra, di ricominciare a «pronunciare il mondo». Una fiducia forse resa possibile o almeno incrementata in Ungaretti dal fatto di provenire da Alessandria d’Egitto, di essere uno «spatriato» geograficamente ed autobiograficamente accertabile, in qualche modo sufficientemente distanziato da una vicenda letteraria secolare che invece un poeta come Montale ha sempre sentito più vicina, anche nei suoi studi e nelle sue primissime pratiche linguistiche, nel corso stesso della sua formazione culturale anteriore al debutto poetico.

In altri termini Montale oppone alla scelta rivoluzionaria, radicalmente e potentemente rivoluzionaria di un Ungaretti alla ricerca di un paese e di parole innocenti, un libro come Ossi di seppia: un libro che un critico, Pier Vincenzo Mengaldo, ha persuasivamente definito documento di «conservatorismo linguistico», intendendo dire con questo un libro agli antipodi con la poesia di cui si fa portavoce Ungaretti: una poesia, quella degli Ossi, che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente al suo atto linguistico, che intrattiene con quella tradizione linguistica forti legami. Potremmo dire – semplificando e quasi ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che Ungaretti aveva scritto e che di Ungaretti si conservano – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. Quello stesso Ungaretti si dimostra pronto poi, con Sentimento del Tempo, a rivedere questa sua posizione. Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia, dichiara al contrario la sua derivazione, la sua dipendenza di tipo storico-linguistico dalla poesia che lo ha immediatamente preceduto, confidando, in vista dell’originalità, di una relazione di conoscenza e superamento da intrattenere con i modelli preesistenti.

Sta di fatto che senza la sperimentazione linguistica e formale di D’Annunzio (basti pensare a un testo di assoluto rilievo come Alcyone) gli Ossi di seppia non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Il linguaggio che Montale adotta nell’esprimersi nel suo primo libro è fortemente intriso di lezioni soprattutto dannunziane, ma anche pascoliane e carducciane; di un linguaggio cioè che attraverso la possibilità di cogliere una storia della lingua della poesia italiana ad altezza primonovecentesca sussume anche la tradizione più antica. Potremmo dire che Ungaretti è fiducioso in una sorta di solitudine del poeta: il poeta che in qualche modo da solo tenta la voce della poesia, tenta la voce di suoni e di significati della poesia. Montale, al contrario, per esprimere la sua originalità ed affermarla compiutamente, sente il bisogno di riferirsi ad una lingua poetica formalmente concresciuta attraverso i contributi di molti, giunta a lui con il suo forte e talvolta gravoso bagaglio di scelte, di responsabilità, di strumenti espressivi già messi a punto e sperimentati, di possibilità culturali ed espressive sondate.

Dobbiamo dire allora che Ossi di seppia è un libro dannunziano? No: Ossi di seppia è il libro forse più profondamente antidannunziano che esista agli inizi del Novecento, proprio perché Montale utilizza una sorta di continuità linguistica garantita dai suoi precedenti per effettuare il suo attraversamento critico, che lo porta ideologicamente al di là del conservatorismo linguistico di un libro come Ossi di seppia, che non a caso ad Ungaretti sembrava un libro attardato (per lui era il libro di un «floreale» non dotato della modernità dirompente che invece egli rivendicava con sicurezza alla propria poesia). Montale, poeta «floreale», apparentemente dannunziano e di clima, frutto di una tradizione epigonicamente seguita, in realtà mediante l’attraversamento critico di quel tipo di risorse fa una sua proposta estremamente originale, affidandosi ad una continuità di tipo linguistico che si risolve in realtà in una potente discontinuità di tipo ideologico. Un’originalità cui oggi tutti siamo disposti a riconoscere lo straordinario valore.

Marco Marchi

I limoni

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Eugenio Montale

(da Ossi di seppia, 1925)

I  VOSTRI COMMENTI

Antonella Bottari
Dopo la lectio del professor Marchi ogni parola sembra abusata o inutile; dirò di essa, che essa rappresentò lo spartiacque tra il versificare ridondante dannunziano e l’  ungarettiana, la perfetta sintesi; ma di questo sappiamo grazie al professore. Non resta altro che prendere atto della grandezza dello scrittore ligure e aggiungere: “Ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade, il ladrone spietato, non potrà allungare la mano”(da Ad Eraclito–Poesia di Callimaco – vv. 5 e 6. Traduzione di Giuseppe Zanetto).

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Proprio nel 1925, l’anno di pubblicazione degli “Ossi di seppia”, sul periodico torinese “Il Baretti”, Montale dichiarava, rivendicando al proprio operato consapevolezze: “Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che per rifar la gente”. Il suo è e sarà l’atto poetico che deliberatamente si connota in senso antitetico rispetto alla poesia di Carducci, Pascoli e D’Annunzio: la poesia scabra ed essenziale di un uomo che non può andarsene sicuro, una pronuncia probabilistica e al negativo, sovrintesa da un necessario monito: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari”.

Antonietta Puri
Sono così tante le suggestioni che s’impongono alla coscienza nel leggere Montale e nel riflettere sulla sua stupefacente produzione lirica, che mi limiterò ad esprimere, come semplice fruitrice di essa, senza nessuna pretesa esegetica, alcuni miei convincimenti, alcune idee ed emozioni che mi suscitano i versi di Montale in generale e in particolare questa poesia. A me piace tanto il Montale di “Ossi di Seppia”, perché lo sento vicino alla mia sensibilità, al mio modo di essere e di sentire; comprendo le sue contraddizioni, la sua attitudine a cogliere il lato oscuro delle cose, il suo scetticismo e anche quella sua imperturbabilità di osservatore e di contemplatore della realtà; comprendo tutto questo alla luce di una mancanza di fede cui affidarsi: “Per me/ l’ago della bilancia / sei sempre tu./ M’hanno chiesto chi sei./ Se lo sapessi/ lo direi a gran voce./ E sarei chiuso tra quelle sbarre donde non s’esce più”. In particolare però, adoro il poeta metafisico che è Montale, quello che cerca di penetrare la verità universale nelle cose, nella vita e nei silenzi; mi immergo nei suoi paesaggi reali e simbolici, nella loro totale astrazione dal tempo, nell’assolutezza delle sue visioni. Ammiro la schiettezza del poeta filosofo che sconfessa i “poeti laureati” che si cimentano e si pavoneggiano nei loro orpelli culturali alla ricerca del vacuo elogio, mentre egli – pur nell’ansia e nel tormento – ama tutto ciò che è semplice natura acquietante, trovando la vera ricchezza da poveri nell’odore della terra e nell’effluvio dei fiori del limone, sempre a un passo dal carpire il mistero della vita, investigando su qualche errore della natura, individuando un pertugio, “l’anello che non tiene”, che sveli l’essenza della vita terrena: momento in cui anche gli esseri umani apparirebbero a un tratto come inquiete divinità…Attimi…Poi il ritorno al tedio usato e alla malinconia della cupa stagione, ma basta intravvedere in un cortile la luce gialla dei limoni che pendono come lampade dalla loro pianta, per sperimentare fugacemente la rarità dell’estasi, la percezione rapida e inafferrabile della bellezza e della pienezza.

Maria Grazia Ferraris
L’ampia dotta e storicamente importante introduzione del prof. Marchi chiarisce il mondo culturale in cui Montale si muove ed invita ad approfondirlo storicamente ed esteticamente nel suo rapporto dialettico con la tradizione. Per quel che riguarda la lirica proposta-I limoni- sappiamo che ha un’importanza particolare nell’esordio poetico dell’Autore. È una poesia complessa, originale. È infatti una dichiarazione di poetica: “All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza” scriverà Montale a commento.
Il poeta intende fare una poesia quotidiana, semplice, lontana dagli artifici della poesia “laureata”, una “poesia d’occasione” in cui un’immagine, un ricordo – l’odore dei limoni, il giallo, le trombe d’oro della solarità- mette in moto la composizione dei versi in una catena di immagini e di relazioni nuove. Ma pur esprimendosi in versi liberi, Montale non rinuncia alla rima, alle trame dei suoni doppi o sibilanti e di una struttura (disarticolata) che non stravolge la frase, ma per allusioni mette a nudo la condizione esistenziale dell’uomo.

Matteo Mazzone
La poesia di Montale si caratterizza, da un lato, per il rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante e, dall’altro, per una ricerca di una rinnovata voce, pur sempre tradizionale, un abbassamento tonale del lirico, che si fa narrativo specchio sociale, fatto attuale tradotto in figure e in simboli, dove anche il linguaggio sublime – che non scompare del tutto nella frequente presenza di preziosismi lessicali – subisce uno slittamento diafasico, dal formale tout court all’insediamento di un informale bilanciato, tenero. Ora il filosofare montaliano, il suo pensiero poetante trovano coraggio a esporsi nel silenzio assordante della ricerca, dell’indeterminatezza umana ed esistenziale: ora è bello lo scoprire una verità causale, demiurgica e confortante; un’epifania (il)logica, razionalmente concepibile, che ci aspetta tutti in fondo a un varco. Il varco, appunto: l’unico “attraversamento” creatosi tramite una particolare congiunzione, lo stato di grazia, rarissimamente rassicurante perché implicito, dis-illusorio, verace.

Giacomo Trinci
La musica della sintassi svolge, in questa lirica di Montale, un discorso di programma che si apre ad una interlocuzione doppia: il tono confidenziale dell’ “ascoltami” iniziale è rivolto insieme ad un lettore e, più in grande, allude ad una tradizione, ad una storia delle forme della poesia. L’intonazione prospettica del componimento sottolinea il carattere fortemente dialettico del ragionare in versi di Montale:il carattere, insieme, di continuità verso la tradizione, rispetto alla grande rottura ungarettiana andata in scena con l”Allegria di naufragi”,e insieme l’abbassamento tonale del linguaggio, la modulazione di un tono nuovo, possibilistico-esistenziale, che costituirà una delle linee portanti, egemoniche del novecento posteriore a Montale. La rottura è frutto di questa ripresa-superamento della tradizione che, negli stessi anni, un grande poeta come Eliot definirà nel saggio “Stile e tradizione”. L’emozione che ci punge rileggendo questo componimento è data proprio dalla sua grande distanza rispetto al nostro tempo: frantumato che frantuma linguaggi forme, trita sintagmi, spezzetta ragioni afasiche… qui, ancora, l’alto ragionare da ginestra leopardiana affronta il negativo ed, ancora, lo contiene caparbiamente.

Giulia Bagnoli
Il poeta, descrivendo un giardino di limoni, esprime la propria predilezione per le cose semplici, quotidiane, e il testo si configura come una vera dichiarazione di poetica. I limoni appaiono, gialli come il sole, come un’epifania salvifica, e donano all’uomo un piccolo barlume di felicità tra i tormenti del mondo; una felicità che dura soltanto pochi istanti e che il poeta rappresenta con un “malchiuso portone”. Il colore del sole si oppone all’inverno e al tedio ed è una sorta di miracolo nella triste realtà della vita.

framo
La pronuncia del senso di una poetica, racchiuso in un concentrato – meno dolce che agro – di sensi sollecitati dalla comune esperienza dei limoni. Un condensato di suoni-colori-sapori-odori che qui resta impresso e che, tuttavia, “non sa staccarsi da terra”; si scontra con la dimensione del non senso e mai diviene speranza di umana, ultraterrena visione consolatoria. Oltre il duro e razionale apprendere, il poeta asseconda l’umano desiderio di avvicinarsi a comprendere che, per grazia rara, in silenzio, al riparo dai rumori, tenta di farsi ascolto di un prezioso “sussurro”. Al chiuso dell’inverno l’andare si tramuta in illuminante melodia segreta, in ricerca in attesa di sorpresa … ben presto, però, da necessità disattesa … per constatazione di “disturbata divinità”.

Lorenzo Dini
Così come ricorda Marchi, “Ossi di seppia” è uno dei libri più potentemente antidannunziani del nostro primo novecento, perché Montale si avvale di una continuità linguistica rispetto alla tradizione per l’attraversamento critico del Vate, rinnovando ideologicamente la propria poesia. E di questa lezione appresa, Montale, parco di riconoscimenti, ravvisa il primato non in se stesso ma nell’opera di Gozzano, nel celebre saggio a lui dedicato. Montale ci dice così che è dovuto passare attraverso «bossi ligustri e acanti» per raggiungere un territorio suo, icasticamente rappresentato, nella poesia d’apertura degli “Ossi”, dai suoi antieloquenti e tuttavia solari limoni.

Duccio Mugnai
Agognata rivelazione di vitalità, tanto inaspettata, quanto illuminante, coloratissima intuizione poetica di questo primo Montale, che sembra arrivare, almeno qui, a toccare la sfuggente essenza profonda ed esaustiva della vita.

Damiano Malabaila
In questo capolavoro non riesco a non vedere un inizio, se non una rivoluzione… Ormai, oltre all’inesauribile valore del testo in sé, funziona nella nostra mente come innesco di tutta una poetica che sembra, ancora oggi, completamente necessaria. Mi dissi: “I limoni”! – e il nome agì!

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Poesia programmatica, da cui trapela una consapevolezza straordinaria per il giovane poeta che si contrappone alla poesia magniloquente dei poeti-vate – in primis D’Annunzio chiamato direttamente in causa da espliciti richiami alle poesie di Alcyone – proponendo una sintesi personale di novità e tradizione, sia dal punto di vista stilistico e linguistico, sia dal punto di vista del contenuto. Non più “bossi, ligustri o acanti”, dunque, che Montale cita e conosce e potrebbe dunque cantare, ma neppure le “humiles myricae”, bensì i limoni con il loro inebriante profumo e la loro solare – anche se illusoria e momentanea – rivelazione. Montale ha saputo riversare i motivi della sua poetica – e della sua polemica! – in versi di straordinaria bellezza: è una sinfonia di suoni e colori, tra disincanto oggettivo e fugace consolazione, che in un crescendo, un climax, di emozioni e sensazioni esplode nello straordinario finale. Non possiamo che applaudire in commossa standing ovation…

Chiara ScidoneA Montale piacciono le cose semplici, come i limoni. Egli non si unisce ai poeti laureati, le persone semplici possono più facilmente apprezzare le cose belle e godersi la vita in modo umile. L’odore dei limoni per montale è un’onda di freschezza in mezzo al mal di vivere.

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