Firenze, 31 ottobre 2021 – Evviva! Vince – alla pari nientemeno che con Rainer Maria Rilke – Giacomo Trinci con il post anniversario intitolato Auguri a Giacomo Trinci che qui si ripubblica. Bravissimo Giacomo, autore di un testo molto suggestivo tratto da un canzoniere per la madre tra i più alti della nostra poesia novecentesca, Senza altro pensiero: un testo degno di stare al fianco dei versi ispiratissimi di Caproni e Pasolini! E bravissimo per il nuovo libro fresco di stampa, Transiti!

Il secondo posto spetta questo mese (a Giacomo Trinci tremeranno nuovamente, di sicuro,  le vene e i polsi) a Marina Cvetaeva e al grande padre Omero, quest’ultimo impostosi attraverso la mediazione traduttoria veramente pregevole di Giovanna Bemporad. Al terzo posto si registra un altro ex aequo: un ex aequo che vede allineati poeti insigni (a Giacomo Trinci tremeranno per la terza volta le vene e i polsi) che rispondono ai nomi di Mario Luzi e Rainer Maria Rilke.

Tra i vostri commenti ottobrini dedicati alla bellissima poesia di Trinci segnaliamo quelli di Matteo Mazzone, Isola Difederigo ed Elisabetta Biondi della Sdriscia. Nell’ordine: “Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!”; “Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in ‘Cella’ partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in ‘Resto di me’ scrive con e per il padre, il figlio che in ‘Senza altro pensiero’ torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – ‘il sunto di un racconto della carne’ – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Sarà per questo, sarà per il calore della tua personalità umana che alla toscana si direbbe ‘tra il lusco e il brusco’, che anch’io, Giacomo, ti voglio bene”; “Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (‘ogni giorno è da qui vive con me’) e riverberando sul passato il dolore (‘Si sentiva più stanca’; ‘era stanca, diceva sempre più). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel ‘morso asciutto’ del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale” .

A domani, con un nuovo mese, nuovi poeti e nuove poesie!

Marco Marchi

Auguri a Giacomo Trinci

VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , “Dona eis requiem sempiternam” , “Libera animas”

Firenze, 12 ottobre 2021 – Ricordando che oggi Giacomo Trinci festeggia il suo sessantunesimo compleanno (Ràmini, Pistoia, 12 ottobre 1960).

Caro Giacomo, tutti noi attendevamo dopo Inter nos un tuo nuovo libro, e quel libro – un magnifico nuovo libro intitolato Transiti, edito da Luca Sossella, che a tutti consigliamo di conoscere – è arrivato!

Del bellissimo, coinvolgente Transiti, solo da qualche giorno pervenuto sul nostro tavolo di lavoro con le sue meraviglie da assaporare senza fretta, ci occuperemo in altra sede, parlandone e scrivendone come merita. Ma mi è capitato recentemente di rileggere la tua raccolta del 2006 Senza altro pensiero, e torno a dirti con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, “altrove” e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia che tu in ogni testo che scrivi onori.

Un canzoniere per la madre, Senza altro pensiero, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile Cella da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta culminato oggi in Transiti, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconobbe Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad Inter nos).

Quel che è venuto dopo – da Voci dal sottosuolo al tuo Pinocchio in versi, da Inter nos a Transiti – è disceso da lì. Ma è con Resto di me e con Senza altro pensiero, prima di qualsiasi successivo, progressivo libro di consuntivo e di rilancio del discorso, che i vincoli con le origini sono tornati a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto Cella già stupendamente registrava.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in Cella all’”ante-vita” e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini dell’Usignolo già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in Cella una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In Senza altro pensiero, come programmaticamente avverrà in Transiti (fino alla “rilettura”, fino all’esibita “riscrittura” in pubblico: si veda in particolare come un lied), la “cella” ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

A suo tempo Bianca Garavelli scrisse per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in Senza altro pensiero di modelli novecenteschi di “canzoniere alla madre”. Ma mancavano, a mio parere, i due riferimenti più utili per capire: la “mari fruta” di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei Versi livornesi di Giorgio Caproni.

Sì, atteniamoci ai poeti, ai poeti capaci – come oggi  nell’intensa prosa prefatoria a Transiti dici – di “incidere con delicata spietatezza” nel tentativo di salvare il reale e magari, con esso, qualche rintracciata verità di se stessi. “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, come in Pasolini, la tua protratta canzone da nido pascoliano potrà dire anche, alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: “suo figlio, il suo fidanzato”.

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete –

quella era la sua camera – vedete 
ogni giorno è da qui vive con me

da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso 
è in un secondo piano ed una porta

a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più 
io sorvegliavo da lontano il cuore

io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da Senza altro pensiero, Aragno 2006)

I VOSTRI COMMENTI

Roberta Maestrelli Berti
Ci sono poeti, come Trinci, che riescono a mettre in poesia la vita vera, e di essa anche i momenti più dolorosi. Così commuovono, nel senso che muovono emozioni, ma nello stesso tempo consolano perchè le parole della Poesia rendono il dolore condivisibile e quindi più accettabile. La rileggerò ancora.. e attraverso le sue parole abbraccerò il mio dolore.

Antonietta Puri
Rivolto a una immaginaria platea (“.- vedete.”) o, voltate le spalle a questa, per dialogare con il coro di un’antica tragedia greca, attore e insieme corifeo, Giacomo Trinci con la sua frequentazione omerica e dantesca attraverso l’uso dell’endecasillabo e sedotto dalla facilità con la quale questi due grandi transitano dal mondo dei vivi a quello dei morti, mi appare simile alla mitica figura – non terribile, ma dolorosa – del guardiano della soglia, moderna e fragile divinità che sorveglia e soprintende al passaggio tra la vita e la morte della madre, dalla sua stanza. Quella stanza-cella è il luogo reale in cui il poeta ha sorvegliato con occhio vigile la madre dal corpo e dal cuore stanco fino all’ultimo respiro; è la soglia tramite la quale essa se n’è andata verso un altrove, valicando quella porta a vetri “che s’apre verso i campi ed oltre”; è il luogo dell’anima, astratto e pur vero, in cui il poeta continua a vegliare l’ombra materna imperitura. …E intanto, riflettendo sulla finitezza della carne, sulla caducità del vivere che è drammaticamente insita nel destino delle creature, Trinci traduce la tristezza che nasce da questo senso di perdita che tutti accomuna in una lirica di straordinaria bellezza.

Antonella Bottari
Una poesia stringente nel morso dei ricordi, questa di Trinci che scopro pian piano. È un umanissimo struggimento che non cede alla retorica e che sommuove lo spirito di chi leggendo, ne possa sentire le profonde vibrazioni. Una versificazione moderna, non banale, non abusata, che rimanda la mia memoria ad altri notissimi versi: “Forse, infranto il mistero, nel chiarore / del mio ricordo un’ombra apparirai, / un nonnulla vestito di dolore. / Tu, non diversa, tu come non mai…”. Auguri Trinci.

Sabina Candela
Buon compleanno a Giacomo Trinci, una delle più belle e originali voci del nostro attuale panorama. Mancano poche ore all’uscita della sua ultima raccolta “Transiti”, che catturerà piacevolmente gli animi per novità di impianto e singolarità di stile.

Pietro Paolo Tarasco
Anche la poesia, quando è sublime, non “muore” mai. Come una madre. Complimenti e auguri caro Giacomo.

Isola Difederigo
Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in “Cella” partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in “Resto di me” scrive con e per il padre, il figlio che in “Senza altro pensiero” torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – “il sunto di un racconto della carne” – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Auguri Giacomo!

framo
Resta solo uno “spunto” di riflessione, un morso asciutto su ciò che carne ora più non è. Nel profondo saliscendi fuori e dentro a questa stanza ai limiti del vuoto, l’invito iniziale alla visione come “sentita veglia” sul possibile ritorno ad un’intimità “che non muore” cede il passo a un “sorvegliare” fin da subito schermato, da secondo piano, estenuato e amaro; un affaccio da camera “con vista” su residui non ancora estinti e non più pulsanti di una memoria prosciugata … l’abstract di una storia che ha vibrato e vibra di reale umanità. Molto bella.

Marco Capecchi
“io veglio ancora quello che non muore”: la poesie va letta. E quando avverti che ogni commento la sciuperebbe è segno che sei di fronte alla grande poesia. Grazie Giacomo Trinci.

tristan51
Con tutta probabilità il maggiore poeta italiano di oggi.

Paolo Parrini
Ci sono Poesie che cambiano la vita di chi ha la fortuna di incontrarle, di leggerle, di amarle. Ci sono Poeti che hanno questo dono, rarissimo e prezioso di combinare una tecnica altissima con un’anima fremente, viva e predisposta a regalarsi. Giacomo Trinci nella mia piccola storia personale, rappresenta questo. Il senso di un bene fatto di dolore, di mancanza, di struggimento, unito alla capacità mirabile di versificare splendidamente. Non esiste una Poesia che per me abbia significato più di questa, la incontrai pochi anni fa, su questa pagina, e fui grato. L’ho fatta leggere a tante persone, a lettori smaliziati e a semplici fruitori della parola poetica. La cosa bellissima e sorprendente è stata l’univocità dei commenti… perché questa Poesia arriva al cuore, penetra in profondità, riempie di dolore , ma lascia incredibilmente un alito di vita tra le dita e sulle labbra. Non so, non mi sento all’altezza di spiegare questo miracolo poetico… ma resta il fatto che una Poesia in morte della Madre diventa un testamento d’Amore universale, e insieme lascia un sapore agrodolce di superamento della morte stessa. La parabola di una vita traslata nell’amore del figlio ,nel ricordo nitido di una fine annunciata. Verrebbe voglia di esserci in quella camera, di piangere insieme al Poeta e di abbracciare insieme a lui , la mamma malata, stringerla e dirle, grazie, grazie di questo testamento d’amore e di Poesia che luccica nel buio delle nostre vite.

Damiano Malabaila
Giacomo Trinci è davvero uno che ‘sente’ più degli altri: testimone inquieto della vita, cantore della disperazione ma anche auscultatore di ineffabili dolcezze. Poeta complesso ma non intellettualisticamente compiaciuto, riesce a convertire tutta l’intensità della sua rigogliosa invenzione entro l’orizzonte (sconfinato) della parola. E questo, specialmente oggi, mi sembra dote rara.

tristan51
Con tutta probabilità il maggiore poeta italiano di oggi. Ma a quando il suo nuovo libro?

Matteo Mazzone
Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!

Giulia Bagnoli
Bellissimi versi, delicati e intesi. Mi piace molto il verso “io veglio ancora quello che non muore”, perché una madre non muore mai davvero: vive in noi figli.

Damiano Malabaila
Giacomo Trinci è davvero uno che ‘sente’ più degli altri: testimone inquieto della vita, cantore della disperazione, ma anche auscultatore di ineffabili dolcezze. Poeta complesso ma non intellettualisticamente compiaciuto, riesce a convertire tutta l’intensità della sua rigogliosa invenzione entro l’orizzonte (sconfinato) della parola. E questo, specialmente oggi, mi sembra dote rara.

Arianna Capirossi      
Potentissimi ed evocativi i deittici in questa poesia di Giacomo Trinci: “quella”, “qui”, “ora”. Passato e presente si confondono, si sovrappongono: la madre non c’è più, eppure c’è. È nel ricordo, è nella casa, è nella stanza: la parola poetica la rievoca, come se la chiamasse, come se lei potesse tornare ancora. Labile è il confine tra il qui e ora e l’oltre eterno: quasi una semplice porta a vetri, che l’anima può, leggera, oltrepassare, dopo aver salito molteplici dure scale. Leggendo questi versi si percepisce il vuoto creato dalla perdita, ma anche la forza del poeta nella sublimazione del dolore tramite l’immanenza della parola: “io veglio ancora quello che non muore”.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (“ogni giorno è da qui vive con me”) e riverberando sul passato il dolore (“Si sentiva più stanca”; “era stanca, diceva sempre più”). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel “morso asciutto” del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale. Vorrei sottolineare, infine, l’originalità dell’incipit: la poesia comincia ex abrupto con un discorso a metà, come il mancato utilizzo della maiuscola sottolinea, quasi facendo ricorso ad una tecnica cinematografica.

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