Firenze, 29 novembre 2018 – Anche per il mese di novembre dobbiamo felicemente registrare un ex aequo! Un ex aequo spartito fra due autori a me particolarmente cari come Pier Paolo Pasolini e Federigo Tozzi, affermatisi nella nostra gara a base di commenti con un bel pareggio grazie ai post Ricordare Pasolini (che qui oggi si ripubblica) e Tozzi, Baudelaire e un fiore del male (che ripubblicheremo domani, anch’esso accompagnato come oggi avviene per Pasolini dai vostri commenti).

Al secondo gradino del podio il non famosissimo ma bravissimo poeta ligure Camillo Sbarbaro con le sue formidabili, indimenticabili poesie per il padre (Il padre di Camillo Sbarbaro). Bronzo infine a un autore dimenticatissimo, anch’egli – sia pure con dosaggi di volta in volta diversi, ma proprio come avviene in come Pasolini, Tozzi e Sbarbaro – espressivamente efficiente tra prosa e poesia: il carpigiano-fiorentino Arturo Loria, autore delle pregevoli poesie raccolte nel “Bestiario” ma soprattutto di numerosi e mirabili racconti, con Buon compleanno ad Arturo Loria.

Ed eccoci ai vostri commenti. Tra quelli che avete con grande perspicacia dedicato al post pasoliniano ne segnalo tre (ma tre sono in realtà veramente pochi), e in particolare quelli di Maria Sabrina Titone, Duccio Mugnai e Isola Difederigo. Rispettivamente: “‘Come un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno, / impiccato da ragazzi a un fico, / … / come un serpe ridotto a poltiglia di sangue / un’anguilla mezza mangiata’. Nei versi di ‘Una disperata vitalità’, in ‘Poesia in forma di rosa’, Pasolini quasi preconizzava il destino delle sue spoglie. Ma la poesia ha voce che resiste ai pestaggi ed alla morte. E di Pasolini echeggia ancora oggi l’urticante vaticinio, e noi dice, come nei versi de ‘Il glicine’, in ‘Poesie incivili’ (aprile 1960), ‘La religione del mio tempo’… ‘Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa./ E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il il senso delle parole: / chi finora ha parlato, con speranza, resta / indietro, invecchiato. (Non serve, per ringiovanire, questo / offeso angosciarsi, questo disperato /arrendersi! Chi non parla è dimenticato.'” ; “Ricordo una lontana lettura universitaria, cioè ‘Vita di Pasolini’ di Enzo Siciliano. Fu illuminante non solo per la presentazione di un esponente di primissimo rilievo della cultura contemporanea, ma anche per gli orizzonti letterari, poetici, artistici e cinematografici, che tale figura carismatica riusciva a rivelare e a ‘trasumanare’ attaverso se stessa. E’ innegabile il suo anarchismo o ribellismo contestatorio pre-marxista e oltre-marxista, che Pasolini poeta riesce ad esprimere in questo poemetto. Al di là della riconosciuta battaglia ‘scientifica’ per una palingenesi del mondo, rimane il pensiero profondo, malinconico, irrazionale di chi sente l’urlo di dolore e fatica di masse mai rappresentate, mai capite, soffocate nella miseria sociale ed esistenziale, nell’ingiustizia. Ecco che allora mi ricordo meglio un passo dello scritto di Siciliano, dove si parla di Pasolini liceale, completamente folgorato dalla lettura in classe di Rimbaud, nel cui ascolto aveva scoperto il suo “antifascismo”. Scrive Marchi dell’’eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale’. E’ proprio in questo aspetto, forse più nascosto, più profondo, meno comunemente discusso dall’intellighenzia borghese, che amo di più la poesia di Pasolini e la sento parlare anche per me”; “Della contraddizione, tra impegno civile e passione estetica e sensuale, Pasolini ha fatto uno stile di vita e lo stile della sua poesia. A questa natura antidialettica, ossimorica della sua ispirazione la poesia del primo tempo romano risponde con una ridefinizione degli strumenti espressivi e retorici capace di adeguare la tradizione alta della lirica italiana con la rappresentazione insieme oggettiva e mitizzante di una nuova realtà antropologica: quella città dei rumori e dei silenzi, di centro e periferia, di sacro e profano, di tedio e splendori, fatta a misura della contraddizione e dello ‘scandalo’. La Roma che a Pasolini mostrerà come ineluttabil lo ‘scandalo’ della propria morte, termine estremo della poesia”. Ma significativi anche i commenti di Aretusa Obliviosa, Elisabetta Biondi della Sdriscia  e Antonella Bottari.

A domani con l’altro vincitore alla pari e ancotra con i vostri commenti che lo hanno portato al primo posto! Evviva Tozzi e Pasolini, di sicuro due colonne portanti del nostro Novecento!

Marco Marchi

Ricordare Pasolini

VEDI I VIDEO Pier Paolo Pasolini legge “Le ceneri di Gramsci” , L’inizio di “Accattone” , Il finale di “Mamma Roma” , “Io sono una forza del passato” (da “La ricotta”) , “Meditazione orale” , L’orazione funebre di Alberto Moravia

Firenze, 2 novembre 2018 – Ricordando che il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini fu barbaramente ucciso al Lido di Ostia.

La testimonianza poetica di Pasolini si origina da una chiamata di tipo squisitamente linguistico: una chiamata legata a una parola dialettale come “rosada”, rugiada, sentita risuonare in Friuli in un mattino inondato di sole dell’estate del 1941; una chiamata suggestiva quanto cogente, religiosamente folgorante come nelle conversioni, destinata a siglare l’intera, complessa vicenda artistica e intellettuale pasoliniana.

Pasolini sarà da quel giorno, prima di tutto, un poeta, e la poesia, in tutte le sue praticabili “forme”, sarà l’elemento fondante e unificante della sua presenza nel mondo, del suo messaggio. Un’obbedienza fattasi immediatamente scrittura (“E scrissi subito dei versi”, come testimonierà Pasolini stesso, riferendosi alle “Poesie a Casarsa”), che presto, per gradi ma con crescente sicurezza, implicherà per lui l’apertura adulta dell’“io” agli altri e al confronto con la Storia: la Storia con le sue ragioni e le sue assurdità, le sue contraddizioni e le sue violenze, le sue ingiustizie e le sue possibilità di riscatto.

Dalla “Scoperta di Marx” che suggella “L’usignolo della Chiesa Cattolica” alle “Ceneri di Gramsci”, dalle raccolte degli anni Sessanta “La religione del mio tempo” e “Poesia in forma di rosa” a “Trasumanar e organizzar” e “La nuova gioventù”, la produzione in versi di Pasolini registrerà, tra partecipazione collettiva e difesa della persona, implicazioni costanti e a ben vedere sempre più drammaticamente efficienti. Mai dismessa non solo come “vocazione” ma anche come preciso genere letterario, la poesia rivendicherà nel corso degli anni, tra “passione” e “ideologia” e all’insegna di un inesausto sperimentalismo, modalità comportamentistiche, prospettive d’intervento e fiducie ad essa ascrivibili sempre diverse.

Pasolini, com’è noto, aveva a suo tempo individuato nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle “Ceneri di Gramsci” la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscilla pericolosamente: quel tentato equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità, sino a fare di se stessa, di se stessa com’era un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.

Basti pensare al Pasolini che autoterapeuticamente scrive, tra canzoniere d’amore e poesia perduta come l’amato dedicatario Ninetto Davoli, “L’hobby del sonetto”, ridisegnando nel segreto, in parallelo alle poesie civili confluite in “Trasumanar e organizzar”, una zona di libertà da quel dovere sociale così pressantemente sentito: un dovere che, falliti i suoi allargati obiettivi d’amore umanamente fondanti e qualificanti, ha analogamente deluso, rendendo impronunciabile la parola “speranza”.

Il poeta si trasforma, la poesia si trasforma, e tuttavia quest’ultima si riconferma strumento privilegiato dell’eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale.

È naturale (e in ciò dissentirei, nella valutazione complessiva del percorso di Pasolini poeta, anche da troppo facili arresti a cronologie alte, laddove cioè la poesia è più agevolmente identificabile come tale, secondo parametri maggioritari condivisi e così sociologicamente autorizzati) che la poesia si faccia diversa, irriconoscibile, disposta a pagare il prezzo della sua diversità nell’affrontare ogni volta da capo il mondo e la Storia, a subire le conseguenze degli scandali e delle delusioni che – sfigurata e irriconoscibile come si presenta – essa stessa determina.

Anche la parola di Pasolini intellettuale si fa all’accorrenza intrattabile e distante come la testimonianza polemica di un vero eretico. È allora che la sua eresia parla per emblemi sibillini, diventa poetico trobar clus, verbo oscuro ribelle alla semantica limitante della convenzione, voce votata all’entropica polisemia e alla deriva di senso.

Il linguaggio diventa simbolico-mistico, inaudito e non integrabile, volto ad operare su un piano di per sé interessato a presentarsi altro, alieno e discontinuo, allestendo un vaticinio problematico e indecente, potenzialmente incompreso, che non ricerca ascolto solidale perché gode, indecentemente appunto, della sua intrattabilità eccessiva e paradossale: dall’antipoetico manifesto in poesia e dalla giornalistica poesia d’intervento sul fatto del giorno al culto, manieristico, solipsistico e dolente sonetto lirico à la manière de Shakespeare.

Marco Marchi

Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo



alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
alle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi


mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
qui nella quiete delle tombe – e insieme –   

quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando la supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.


Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso


che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,


soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento


del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale


così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso


– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?


Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando


il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza…

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro di te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
–
 nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancora più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore

liberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

Pier Paolo Pasolini

(da “Le ceneri di Gramsci”, 1957; il poemetto eponimo qui proposto risale per composizione al 1954)

I VOSTRI COMMENTI

Antonella Bottari
Credo che, una lettura del poemetto sia utile a circa 60 anni di distanza, per compenetrarci nella temperie culturale del periodo in cui i versi furono meditati e poi illuminarono il mondo con la loro folgorante intensità. Il Nostro è presso la tomba di Antonio Gramsci sepolto nel cimitero degli inglesi a Roma; si intesse un dialogo intenso tra i due, che inizia con la descrizione di un maggio autunnale, che sembra rappresentare “il grigiore del mondo, / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo /e ingenuo sforzo di rifare la vita”, differente da “quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore” e il giovane Gramsci “delineava l’ideale che illumina” il silenzio del presente. Da questo primo confronto nascono le riflessioni di Pasolini sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea, il dato autobiografico si unisce e si intreccia con quello storico-politico. Emerge quindi il tema pasoliniano del cambiamento della società, avvertito drammaticamente dallo scrittore, che, sempre rivolgendosi a Gramsci, ricorda il mondo rurale, che sta ormai scomparendo e che esisteva anche prima della nascita del politico comunista. Pasolini rintraccia caratteristiche e tratti di questo mondo in quello proletario e povero delle borgate, quartieri popolari e periferici di Roma, un mondo che non gli appartiene, ma da cui si sente attratto. Il poeta ammira la vita proletaria per “la sua allegria”, non per “la millenaria sua lotta”, per “la sua natura”, non per la sua “coscienza”. In questi versi si presenta il confronto con Gramsci e con l’ideologia comunista: a Pasolini il popolo non interessa nella sua lotta di classe e nella sua coscienza di classe, ma nelle sue espressioni più autentiche e vitali, e quindi più sincere. In questi versi viene spiegata la contraddizione intriseca del poeta tra adesione razionale all’ideologia comunista e, emotivamente, il rifiuto di questa: “Lo scandalo del/contraddirmi, / dell’essere / con te e contro te; con te nel core, / in luce, contro te nelle buie viscere; /del mio paterno stato traditore / – nel pensiero, in un’ombra di azione – /mi so ad esso attaccato nel calore / degli istinti, dell’estetica passione”. L’istinto e la passione interiori sembrano incarnati dalla figura del poeta Shelley (seppelito poco distante da Gramsci e a cui il poeta dedica diversi versi), simbolo della “carnale / gioia dell’avventura, estetica / e puerile” a confronto con la forza razionale, incarnata dal pensatore comunista. A questa passione dei sensi e per la vita Pasolini non può rinunciare, se ne sente partecipe, ma anche vittima, come esprime con questa domanda che rivolge a Gramsci: “Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”. L’amore per il mondo proletario, destinato a scomparire, è evidente nella malinconica descrizione finale del quartiere operaio Testaccio: gli operai tornano nelle loro case, si accendono rari lumi, i giovani gridano nelle piazze “a godersi eccoli, miseri, la sera e “il buio ha resa serena la sera”. E Pasolini, osservatore di questo mondo e non partecipe delle gioie dei ragazzi, ne constata l’inevitabile declino: “Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, /potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?”.

Damiano Malabaila
Spesso si ha l’impressione che Pasolini sia famoso per motivi che con la sua straordinaria arte hanno poco a che fare. Eppure basterebbe un libro come le Ceneri, che non ha uguali nel Novecento italiano, per dimostrare la sua originalità e la sua personalissima, inconfondibile marca. Alla base della sua poesia c’è sempre una sensibilità estetica, una profondità di pensiero e una creatività che formano un amalgama quasi miracoloso: grazie a questo Pasolini sa parlarci, come pochissimi altri, di quel “qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita”.

tristan51
“Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”. Straordinario Pasolini.

Giulia Bagnoli
L’ideale è morto lasciando il posto alla disperazione: Gramsci non può più essere un padre, ma soltanto un umile fratello e il poeta, alla vita ideale proposta dall’intellettuale, ha scelto ormai una vita passionale ed estetica.

Antonietta Puri
Immaginando di trovarsi davanti alla tomba di Antonio Gramsci, Pasolini intreccia con il politico e pensatore comunista una meditazione-dialogo che inizia con la mesta descrizione di un maggio autunnale, metafora di un mondo ingrigito dopo l’infrangersi del sogno di un rovesciamento della vita sociale, contro il ricordo di quel “maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore”. E’ una meditazione ideologica e autobiografica in cui il dato personale interseca quello storico creando un canovaccio intessuto sulla lucida consapevolezza pasoliniana di una dolorosa contraddizione tra la sua adesione razionale all’ ideologia comunista e la sua rivolta emotiva verso di questa; ciò che egli chiama “lo scandalo del contraddirmi”: l’essere attratto dal fascini della sanguigna vitalità di un’umanità pullulante nei suburbi romani, un’umanità semplice e scaltra ma sincera, non riuscendo peraltro a condividerne il ruolo di forza liberatrice e progressista che l’ideologia marxista le aveva assegnato, nell’illusione che dopo secoli di soprusi, quel sottoproletariato che tanto affascinava il nostro poeta si sarebbe dato , anima e corpo, alla lotta di classe, quando non esisteva neanche la minima idea di coscienza di classe…Pasolini, nell’ottica decadente del fascino del primitivo e dall’avvento di una sana barbarie, giustifica la propria posizione affermando che è preferibile, per questo tipo di umanità, condurre una vita miserabile, purché incontaminata, abietta ma libera e selvaggia, al posto di una vita basata sul diritto e la giustizia di una civiltà corruttrice.
D’altra parte, assieme a questo tema, si legge nella poesia e in tutta la raccolta l’amore sviscerato che Pasolini nutre per questa Roma suburbana, il luogo poetico che grande parte ha nella sua produzione letteraria: una rappresentazione colma di passione, con ampi cedimenti alla descrizione, nella varietà molteplice degli aspetti e dei colori.

Maria Grazia Ferraris
“Come vedi, la mia biografia finisce sempre con l’identificarsi con la letteratura: e non so dirti sesia male o bene”. (Da una lettera di PierPaolo Pasolini). È una consapevolezza che chiarisce i vari passaggi del poemetto, che è un’opera di impegno civile e di grande sperimentalismo formale, in cui il poeta rappresenta nella loro drammaticità le contraddizioni, consapevolmente vissute, del proprio pensiero, oscillante tra adesione razionale all’ideologia comunista e la sua distanza emotiva. Nel pomeriggio di una giornata uggiosa di maggio davanti alla tomba di Gramsci, Pasolini riflette sulla sua vita di uomo con alle spalle le miserie dei primissimi anni romani, e si chiede perché la sua vita è cambiata – come l’Italia intorno a lui. Il dialogo mette in luce le differenze e le contraddizioni della visione della vita e dell’impegno politico: “Lo scandalo del | contraddirmi, | dell’essere | con te e contro te; con te nel core, | in luce, contro te nelle buie viscere; | del mio paterno stato traditore | – nel pensiero, in un’ombra di azione – | mi so ad esso attaccato nel calore | degli istinti, dell’estetica passione”. Dice lo stesso Pasolini a commento della sua opera: “Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: ‘Cinera Gramsci’, con le date”. Il cimitero degli Inglesi è “buio giardino straniero, giardino gramo,sito estraneo, silenzio fradicio e infecondo” e Gramsci è un “morto disadorno” e non un “forte”, nemmeno un “padre”, un “umile fratello”.( E questa parola, nella biografia di Pasolini, ha un rintocco tragicamente personale). Il popolo non gli interessa nella sua lotta e coscienza di classe, ma nelle sue espressioni più autentiche e vitali, e quindi più sincere. Di fronte alla tomba di Gramsci, formula un interrogativo che non aspetta risposta: “ Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?”.

Maria Sabrina Titone
“Come un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno, / impiccato da ragazzi a un fico, / … / come un serpe ridotto a poltiglia di sangue / un’anguilla mezza mangiata”. Nei versi di “Una disperata vitalità”, in “Poesia in forma di rosa”, Pasolini quasi preconizzava il destino delle sue spoglie. Ma la poesia ha voce che resiste ai pestaggi ed alla morte. E di Pasolini echeggia ancora oggi l’urticante vaticinio, e noi dice, come nei versi de “Il glicine”, in “Poesie incivili (aprile 1960), La religione del mio tempo… “Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa./ E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il il senso delle parole: / chi finora ha parlato, con speranza, resta / indietro, invecchiato. (Non serve, per ringiovanire, questo / offeso angosciarsi, questo disperato /arrendersi! Chi non parla è dimenticato”.

Duccio Mugnai
Ricordo una lontana lettura universitaria, cioè Vita di Pasolini di Enzo Siciliano. Fu illuminante non solo per la presentazione di un esponente di primissimo rilievo della cultura contemporanea, ma anche per gli orizzonti letterari, poetici, artistici e cinematografici, che tale figura carismatica riusciva a rivelare e a “trasumanare” attaverso se stessa. E’ innegabile il suo anarchismo o ribellismo contestatorio pre-marxista e oltre-marxista, che Pasolini poeta riesce ad esprimere in questo poemetto. Al di là della riconosciuta battaglia “scientifica” per una palingenesi del mondo, rimane il pensiero profondo, malinconico, irrazionale di chi sente l’urlo di dolore e fatica di masse mai rappresentate, mai capite, soffocate nella miseria sociale ed esistenziale, nell’ingiustizia. Ecco che allora mi ricordo meglio un passo dello scritto di Siciliano, dove si parla di Pasolini liceale, completamente folgorato dalla lettura in classe di Rimbaud, nel cui ascolto aveva scoperto il suo “antifascismo”. Scrive Marchi dell’”eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale.”. E’ proprio in questo aspetto, forse più nascosto, più profondo, meno comunemente discusso dall’intellighenzia borghese, che amo di più la poesia di Pasolini e la sento parlare anche per me.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Poesia sulla morte e insieme poesia della vita, Le ceneri di Gramsci rappresentano una pietra miliare della poesia pasoliniana e della letteratura contemporanea: nei suoi versi inarcati gli uni sugli altri, come anse del Tevere, ad intessere un canto in cui vibra costantemente eco della grande tradizione poetica italiana – da Dante e Foscolo fino a d’Annunzio e Pascoli – tema civile e dissidio interiore personale e umano del poeta sono intrecciati in modo indistricabile, come lo sono la vita e la morte nel “giardino” che ospita il disadorno monumento funebre di Gramsci. La terzina dantesca – e pascoliana – e l’ampio digredire conferiscono al carme il respiro ampio delle canzoni civili e in più di un’occorrenza, per somiglianza o per antitesi, gli endecasillabi de Le Ceneri richiamano la grande poesia dei Sepolcri, ma il loro fascino unico e irripetibile scaturisce proprio dall’antitesi ripetutamente scandita tra la disperata passione di essere nel mondo, che si rispecchia nella vitalità spontanea di un mondo di borgata chiuso negli orizzonti ristretti e incolti della miseria, e la consapevolezza di essere morto vivo, incapace di delineare “l’ideale che illumina”, imborghesito proprio da quella cultura che potrebbe fornirgli gli strumenti per agire nella storia.

Isola Difederigo
Della contraddizione, tra impegno civile e passione estetica e sensuale, Pasolini ha fatto uno stile di vita e lo stile della sua poesia. A questa natura antidialettica, ossimorica della sua ispirazione la
poesia del primo tempo romano risponde con una ridefinizione degli strumenti espressivi e retorici capace di adeguare la tradizione alta della lirica italiana con la rappresentazione insieme oggettiva e mitizzante di una nuova realtà antropologica: quella città dei rumori e dei silenzi, di centro e periferia, di sacro e profano, di tedio e splendori, fatta a misura della contraddizione e dello “scandalo”. La Roma che a Pasolini mostrerà come ineluttabil lo “scandalo” della propria morte, termine estremo della poesia.

Arianna Capirossi
“Le ceneri di Gramsci” è poesia attualissima che racconta l’inesorabile perdita di identità di una nazione, identità distrutta dalla pressa dell’economia capitalistica. Pasolini descrive una società di tetre ombre senza più ideali, né storia; un mondo dove il lavoro non è più virtù, poiché l’unico valore rimasto è il possesso; una vita quotidiana in cui non ci si accontenta dell’essenziale, ma si anela all’inutile, offerto ai consumatori in “vetrine / dal rozzo splendore”. I versi del poeta, come parole di profeta, svelano gli immani e freddi ingranaggi del sistema, all’apparire del quale si frantumano illusioni e ingenue speranze di equità e di giustizia. Alla fine, di positivo resta solo la fragile aura poetica di una vita umile e di una felicità ormai lontana, ricordata con nostalgia (“l’ebbrezza della nostalgia, / una luce poetica”).

Rosalba de Filippis
Sto pensando a un altro grande poeta, Giorgio Caproni, che,legato da amicizia sincera a Pier Paolo Pasolini, non se la sentì di pronunciare l’orazione funebre. «Caro Pier Paolo. / Il bene che ci volevamo / – lo sai – era puro. / E puro è il mio dolore. / Non voglio pubblicizzarlo. / Non voglio, per farmi bello, / fregiarmi della tua morte / come d’un fiore all’occhiello».

Marco Capecchi
Immensa poesia sempre in tensione tra soggetto e collettivo, cronaca e storia e storia dentro la cronaca. Dove la classe si realizza nei volti e nella vita di un popolo, la contraddizione si risolve nella speranza profeticamente irrealizzata.

Aretusa Obliviosa
Non posso leggere questa poesia senza pensare a quella tradizione anche letteraria che Pasolini amava e contrapponeva alla deriva contemporanea. È forse per questo che nel silenzio della morte, così come nelle urne e nella dimensione civile della seconda parte del componimento avverto una forte presenza foscoliana, quasi un appellarsi ad un recente passato già diventato mito – lo stesso Gramsci ne diviene qui alto esempio – da contrapporre ad un presente che, anziché manifestarsi vivo, si rivela paradossalmente in tutta la sua putredine e immobilità. Si veda in proposito l’insistenza sul campo semantico dell’umido. Eppure il paradosso più eclatante di tutti è in Pasolini il non poter non amare in maniera viscerale quel mondo che è oggetto stesso del suo biasimo. E questo paradosso è forse, più di ogni altra cosa, ciò che ancora oggi ci lega al Poeta e ci rende necessarie le sue parole.

Chiara Scidone
In una giornata di un maggio autunnale, Pasolini riflette sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea, di fronte alla tomba di Antonio Gramsci.
Il cambio repentino che sta subendo è profondamente sentito dal poeta, la realtà rurale viene sostituita da quella nuova proletaria. Pasolini non si sente parte di quest’ultima ma allo stesso tempo ne è anche affascinato, pur sapendo che questa sarà la fine del suo mondo.

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