Firenze, 28 dicembre 2018 – Un risultato per vari aspetti del tutto inaspettato e bellissimo, questo mese! Un podio tutto rosa, giocato tra Italia ed internazionalità, anche se la vera patria della poesia, come tutti sappiamo, è il mondo. Al gradino più alto un riconoscimento progressivamente scaturito dall’affezione per Antonia Pozzi e la sua poesia con il post “I prati del sole. Antonia Pozzi” che qui si ripubblica con i vostri commenti. Al secondo posto una regina delle poetesse di tutti i luoghi e di tutti i tempi, la da me amatissima Emily Dickinson (Una carrozza per l’eterno. Emily Dickinson). E assieme alla recentemente rivalutata Antonia Pozzi e alla famosissima Dickinson la pochissimo nota ma brava e sicuramente da scoprire “poetessa pastorella” senese di primo Novecento Dina Ferri,  autrice del “Quaderno del nulla”, una voce che costituì a suo tempo, soprattutto grazie all’interessamento del Marchese Piero Misciattelli, un vero e proprio caso letterario nazionale corredato perfino di una significativa propaggine statunitense (Dina Ferri, poetessa pastorella).

Evviva! Onore a tre donne e alla loro scrittura, ricordando assieme a loro anche altre poetesse presentate nel corso di questo ultimo mese dell’anno come la portoghese Florbela Espanca, la latina Sulpicia e Maria Luisa Spaziani!

Tra i vostri commenti segnaliamo stavolta quelli particolarmente significativi di Antonella Bottari, Antonietta Puri e Duccio Mugnai (ma anche altri, come sempre accade, avrebbero meritato di essere scelti). Rispettivamente: “Eugenio Montale la definì” forever young”, poiché nelle poesie dell’autrice milanese prende forma un desiderio irresistibile per la natura, una tensione adolescenziale a conoscere il senso delle cose. Disse di lei: ‘Anima musicale e facile a perdersi nell’onda sonora delle sensazioni, la Pozzi stava già superando lo scoglio della poesia femminile, l’incaglio che fa dubitare tanti della possibilità stessa di una poesia di donna’. Thomas Stearns Eliot, accostandosi alla Pozzi su consiglio di Montale, dice d’apprezzarne ‘la purezza e l’onestà d’animo’.Tutto ciò, però, velato da un senso di nostalgia, d’incompiutezza. Neppure la poesia basta a nominare ciò che si cerca. In una lettera a Vittorio Sereni, ella scrive che ‘forse l’età delle parole è finita per sempre’. Un blocco, ma in negativo, che era già di Dante in Paradiso. Incapace, la Pozzi, di sostenere questa impossibilità, la strada che sceglie è la stessa di Tonio Kroeger, nel famoso racconto di Thomas Mann. Il poeta ‘è colui che non arriva alla vita, ma va oltre la vita’. E non trovandone altre più belle e più ispirate, più commoventi in questo momento che sa di eterno e di fine, una fine dove tutto ha inizio, concludo con i versi della giovanissima autrice: ‘…So che forse noi siamo creature / nate tutte da un’ansia eterna: il mare; / e che la vita, quando fruga e strazia / l’essere nostro, spreme dal profondo / un po’ del sale da cui fummo tratte…'”; “Conosciamo i momenti salienti della biografia di Antonia Pozzi, questa brava poetessa oggi giustamente rivalutata dalla critica, ma della cui poesia, negli anni precedenti e successivi alla sua morte per suicidio, solo Montale intese tutta la portata; una poesia quella della Pozzi che scaturisce e germoglia dalla profondità di un’anima mossa da una sorta di inquieto fervore – come non pensare a Cristina Campo? – tipico di chi è alla continua ricerca di un Assoluto e, uscendone frustrato, matura una sensibilità e una vulnerabilità tali da condurre ad estreme conseguenze, come, di fatto, è accaduto con lei. In effetti, trovo che sia riduttivo imputare ad una delusione amorosa la sua scelta di togliersi la vita, anche se il fatto può aver funzionato da innesco al suo dramma personale; tanto è vero che la poesia di cui oggi si tratta, ‘Funerale senza trsitezza’ era stata composta dalla Pozzi ben quattro anni prima della sua morte e in questa lirica, una delle più emozionanti che la poetessa ci ha lasciato, traspare un’idea della morte quasi come di un ripiegare all’indietro del percorso della vita, un retrocedere sereno alle origini, alla luce, all’Uno: la morte non come fine tragica della vita, ma come un affondare dolce in una dimensione altra, nascosta e segreta. La morte che Antonia Pozzi si è data volontariamente nasceva sì dal male di vivere, ma di un vivere che non bastava a saziare la sua fame di quella vita che amava, nella cui manifestazione naturale vedeva tanto la bellezza trascendente che richiamava all’immaginazione infiniti orizzonti, quanto l’inesorabile determinazione del destino umano. Intensa e totalizzante è stata per Antonia l’esperienza poetica, quasi una mappa dettagliata e lucida di un cammino fatalmente prestabilito e percorso fino in fondo…, se non altro per consegnarla ai posteri con la fama di una grande poetessa”; “Indubbiamente, c’è da considerare una possibilità di taglio testuale. La poesia di Antonia Pozzi scende nel profondo, dove si illumina improvvisamente un grande amore per la vita, sublimato da un gelido paesaggio invernale. Si sente il grande desiderio di vivere, ma la strutturazione poetica si basa su una frizione tra felicità desiderata, espressa e la percezione di una depressione naturalistica, che si vuol vincere, superare e di cui la neve è concreto simbolo ossessivo. Ricordo alcune poesie di guerra di Ungaretti: ‘Vorrei imitare, / questo paese / adagiato / nel suo camice / di neve’. Sembra che la neve sia un lenzuolo-sudario sulla pena del vivere. Anche in Ungaretti c’è questa agonia felice, questa contrazione tra esistenza e trasfigurazione, tra vita e morte: “Questi dossi di monti si sono coricati nel buio delle valli […]’. Così, Antonia Pozzi presenta questo inquietante “attrito” tra il bianco e le gioie dell’esistere: ‘[…] Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi / biondi: le bimbe / vestite di bianco, / col velo color della brina, / la voce colore dell’acqua / ancora viva / fra terrose prode. / Le fiammelle dei ceri, naufragate / nello splendore del mattino […] questo tornare degli umani, / per aerei ponti / di cielo, / per candide creste di monti / sognati, / all’altra riva, ai prati / del sole'”.

Buone feste a tutti voi, sempre in compagnia dei nostri poeti, e auguri per un 2019 sereno e felice!

Marco Marchi

I prati del sole. Antonia Pozzi

VEDI I VIDEO “Funerale senza tristezza” , “Largo” , “Preghiera alla poesia” , “Lieve offerta” , “Bellezza” , Cult Book su Antonia Pozzi

Firenze, 3 dicembre 2018 – Torniamo a sollecitare, in occasione dell’anniversario della morte di Antonia Pozzi, l’incontro con questa interessante e non sempre adeguatamente valorizzata voce femminile della poesia italiana del Novecento. Lo facciamo riportand0 le sintetiche note biografiche che corredano un video a lei dedicato.

«Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) (…). Figlia di Roberto, un importante avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossiscrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove inizia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta dal Cervi nel 1933, procurandole la depressione – “e tu sei entrata / nella strada del morire”, scrive di sé in quell’anno – che contribuirà a condurla al suicidio.

Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, del quale sembra si innamorasse non ricambiata, e segue le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert (…).

Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, conosce il tedesco, il francese e l’inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, dove è la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca un sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna (…).

La grande italianista Maria Corti che la conobbe all’università, disse che “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili”.

Avverte certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpiscono alcuni dei suoi amici più cari; “forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrive quell’anno a Sereni.

Nel suo biglietto di addio ai genitori scrive di disperazione mortale e si uccide con i barbiturici. La famiglia negherà la circostanza “scandalosa” del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu però distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite; la storia d’amore con il Cervi sarà falsamente descritta come una relazione platonica. È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo».

Tutte le opere di Antonia Pozzi sono oggi edite, a cura di Alessandra Cenni, da Garzanti. Le poesie dell’autrice di Parole sono state di recente anche molto tradotte.

Marco Marchi

Funerale senza tristezza

Questo non è esser morti,
questo è tornare
al paese, alla culla:
chiaro è il giorno
come il sorriso di una madre
che aspettava.
Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi
biondi: le bimbe
vestite di bianco,
col velo color della brina,
la voce colore dell’acqua
ancora viva
fra terrose prode.
Le fiammelle dei ceri, naufragate
nello splendore del mattino,
dicono quel che sia
questo vanire
delle terrene cose
– dolce –,
questo tornare degli umani,
per aerei ponti
di cielo,
per candide creste di monti
sognati,
all’altra riva, ai prati
del sole.

3 dicembre 1934

Antonia Pozzi

(da “Parole”)

I VOSTRI COMMENTI

Paolo Parrini
Se penso ad Antonia Pozzi avverto quanto la vita possa essere ingiusta e meravigliosa insieme. Un fiore sbocciato e strappato alla terra nell’arco di un’alba sola, che ha però lasciato un profumo inebriante . doloroso, vivido. Anche in questa poesia, mirabile per ispirazione, dolente e intensa , si respira il senso di una tragedia imminente con una dolcezza sofferta che smuove l’anima.
I prati del cuore cui tutti faremo ritorno, stringono in una morsa il respiro se si pensa all’età in cui elle pose fine alla sua vita, davvero troppo verde, e restano dentro, così come il dono che il fato così avverso per altri aspetti, le aveva lasciato. Resta di lei la sua Poesia, che se non bastò a salvarla dai terreni patimenti, almeno ci permette di amarla dopo tanti anni come fosse qui adesso, una di noi, e sopra di noi, a regalarci la sua triste felicità.

tristan51
Magnifico studio di chiarità, di bianco, di luce. Una testimonianza in atto di come la poesia sappia infrangere i confini tra la vita e la morte (si pensi ad un’altra sottovalutata poetessa del nostro Novecento: Cristina Campo), e un testo intenso come i testi di Antonia Pozzi sanno essere.

Maria Grazia Ferraris
Su A. Pozzi si stanno ormai estendendo vari e impegnativi studi che sia l’Università di Milano da lei frequentata sia quella varesina dell’Insubria ( l’origine del padre, i soggiorni di A. nel territorio, la parentela lavenese, l’amicizia con V. Sereni…) hanno promosso. Io stessa ho appena pubblicato il libro “Una singolare generazione” che riprende il discorso intorno la periodo storico e alla straordinaria figura di A. Banfi e i giovani (Anceschi, Sereni, Paci, Preti, Cantoni, A. Pozzi, D. Menicanti …) che vi hanno partecipato. È peraltro fresco di stampa il nuovo volume curato da Fabio Guidali e Matteo M. Vecchio ( non certo alla prima prova in questi studi focalizzati sulla poesia lombarda) dal titolo “Chi parla non sa / che io ho vissuto un’altra vita…” ed. L’Arcolaio, molto originale, documentato, e ben lontano da intenti celebrativi; affronta infatti la poesia e la storia umana della Pozzi senza farsi carico di letture stereotipate, dogmatiche, (o censurate) che spesso si ripetono raccontando “una favola bella che, evidentemente, qualcuno ancora illude.”La sua scelta estrema ha ragioni molto profonde, complesse, si innesta sia nel non sentirsi più parte del mondo in cui si ritrovava a vivere, (il fascismo, il 1938, le leggi razziali, l’esilio degli amici Treves…) e non solo su motivi individuali, personali, che pure sono determinanti, e rompono la sua “fragile corazza”, come dimostra la poesia oggi proposta dal blog “Funerale senza tristezza”in cui i versi finali rappresentano davvero il suo ritratto più nobile e poetico: “questo vanire/ delle terrene cose/– dolce –,/ questo tornare degli umani,/ per aerei ponti/ di cielo,/ per candide creste di monti/ sognati,/ all’altra riva, ai prati/ del sole.”

Roberta MaestrelliBerti
La vita.. una prigione opprimente; la morte.. un volo verso la libertà e la bellezza della natura che amava.. Anche le sue foto, fatte con occhio di poeta, dimostrano questo suo sentire la natura come unica casa benevola in cui rifugiarsi!

Antonella Bottari
Eugenio Montale, la definì” forever young”, poiché nelle poesie dell’autrice milanese prende forma un desiderio irresistibile per la natura, una tensione adolescenziale a conoscere il senso delle cose. Disse di lei: “Anima musicale e facile a perdersi nell’onda sonora delle sensazioni, la Pozzi stava già superando lo scoglio della poesia femminile, l’incaglio che fa dubitare tanti della possibilità stessa di una poesia di donna.” Thomas Stearns Eliot, accostandosi alla Pozzi su consiglio di Montale, dice d’apprezzarne «la purezza e l’onestà d’animo».Tutto ciò, però, velato da un senso di nostalgia, d’incompiutezza. Neppure la poesia basta a nominare ciò che si cerca. In una lettera a Vittorio Sereni, ella scrive che “forse l’età delle parole è finita per sempre”. Un blocco, ma in negativo, che era già di Dante in Paradiso. Incapace, la Pozzi, di sostenere questa impossibilità, la strada che sceglie è la stessa di Tonio Kroeger, nel famoso racconto di Thomas Mann. Il poeta “è colui che non arriva alla vita, ma va oltre la vita”. E non trovandone altre più belle e più ispirate, più commoventi in questo momento che sa di eterno e di fine, una fine dove tutto ha inizio, concludo con i versi della giovanissima autrice: “…So che forse noi siamo creature / nate tutte da un’ansia eterna: il mare; / e che la vita, quando fruga e strazia / l’essere nostro, spreme dal profondo / un po’ del sale da cui fummo tratte…”.

Antonietta Puri
Conosciamo i momenti salienti della biografia di Antonia Pozzi, questa brava poetessa oggi giustamente rivalutata dalla critica, ma della cui poesia, negli anni precedenti e successivi alla sua morte per suicidio, solo Montale intese tutta la portata; una poesia quella della Pozzi che scaturisce e germoglia dalla profondità di un’anima mossa da una sorta di inquieto fervore – come non pensare a Cristina Campo? – tipico di chi è alla continua ricerca di un Assoluto e, uscendone frustrato, matura una sensibilità e una vulnerabilità tali da condurre ad estreme conseguenze, come, di fatto, è accaduto con lei. In effetti, trovo che sia riduttivo imputare ad una delusione amorosa la sua scelta di togliersi la vita, anche se il fatto può aver funzionato da innesco al suo dramma personale; tanto è vero che la poesia di cui oggi si tratta, “Funerale senza tristezza” era stata composta dalla Pozzi ben quattro anni prima della sua morte e in questa lirica, una delle più emozionanti che la poetessa ci ha lasciato, traspare un’idea della morte quasi come di un ripiegare all’indietro del percorso della vita, un retrocedere sereno alle origini, alla luce, all’Uno: la morte non come fine tragica della vita, ma come un affondare dolce in una dimensione altra, nascosta e segreta. La morte che Antonia Pozzi si è data volontariamente nasceva sì dal male di vivere, ma di un vivere che non bastava a saziare la sua fame di quella vita che amava, nella cui manifestazione naturale vedeva tanto la bellezza trascendente che richiamava all’immaginazione infiniti orizzonti, quanto l’inesorabile determinazione del destino umano. Intensa e totalizzante è stata per Antonia l’esperienza poetica, quasi una mappa dettagliata e lucida di un cammino fatalmente prestabilito e percorso fino in fondo…, se non altro per consegnarla ai posteri con la fama di una grande poetessa.

Duccio Mugnai
Indubbiamente, c’è da considerare una possibilità di taglio testuale. La poesia di Antonia Pozzi scende nel profondo, dove si illumina improvvisamente un grande amore per la vita, sublimato da un gelido paesaggio invernale. Si sente il grande desiderio di vivere, ma la strutturazione poetica si basa su una frizione tra felicità desiderata, espressa e la percezione di una depressione naturalistica, che si vuol vincere, superare e di cui la neve è concreto simbolo ossessivo. Ricordo alcune poesie di guerra di Ungaretti: “Vorrei imitare, / questo paese / adagiato / nel suo camice / di neve”. Sembra che la neve sia un lenzuolo-sudario sulla pena del vivere. Anche in Ungaretti c’è questa agonia felice, questa contrazione tra esistenza e trasfigurazione, tra vita e morte: “Questi dossi di monti si sono coricati nel buio delle valli […]”. Così, Antonia Pozzi presenta questo inquietante “attrito” tra il bianco e le gioie dell’esistere: “[…] Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi / biondi: le bimbe / vestite di bianco, / col velo color della brina, / la voce colore dell’acqua / ancora viva / fra terrose prode. / Le fiammelle dei ceri, naufragate / nello splendore del mattino […] questo tornare degli umani, / per aerei ponti / di cielo, / per candide creste di monti / sognati, / all’altra riva, ai prati / del sole”.

Yumiko Nakajma
Mi sembra che A. Pozzi sognava di tornare alla sua infanzia dolce e candida che si poteva vedere dalla creste di monti, all’altra riva, ai prati del sole.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un rito più nuziale che funebre per celebrare un cambiamento di stato che non è morte ma ritorno ad una primigenia armonia, ad una condizione di perfezione incorporea: nel « vanire » delle terrene cose vibra un anelito di vita vera, un desiderio di purezza incontaminata e un infinito bisogno d’amore!
Questi versi di Antonia Pozzi si possono considerare il testamento spirituale, il lascito estremo di una grande poetessa che si lasciò morire tra i sui monti.

Roberta Artini
L’esperienza poetica della Pozzi non maturata per la sua tragica interruzione ed il forte carattere autobiografico hanno sempre vietato o almeno scoraggiato una precisa collocazione nel panorama della poesia degli anni trenta. Le manomissioni del padre sui testi, il ritardo della critica hanno poi di fatto contribuito a non stimolare un approfondimento della sua opera. Antonia nella sua vita è sempre stata prevaricata dalla volontà paterna, non solo per la sottomissione al volere della famiglia in virtù dei valori tradizionali, ma anche per la mortificazione di una sensibilità intellettuale in un’epoca storica e sociale in cui la donna non può avere nessuna possibilità di esprimere la propria emotività. Da questo nasce la solitudine che non sarà mai risolta neanche dalle amicizie più care. Il pensiero della morte è sempre presente nella poesia di Antonia. Dapprima appare in maniera leggera ma con il passare degli anni si fa sempre più pressante. Accanto alle poesie troviamo i diari, le lettere e anche un progetto di romanzo in una ricerca continua di ancorarsi a valori concreti e meno disponibile alla concezione della poesia come alternativa alla realtà. Evidentemente tutto questo non è servito ad allontanarla dal pensiero della morte. Il 2 dicembre 1938 si reca presso l’Abbazia di Chiaravalle con un tubetto di barbiturici lì nella natura che tanto ha amato si lascia andare. Antonia non ha retto al peso della vita, alla perdita dell’amore, alla mancata realizzazione del suo progetto di vita e , troppo debole per lottare, si è avviata incontro alla morte con la certezza che ” dietro la porta per sempre chiusa (…) sarà – tu lo sai – la pace”. Questo interesse della critica oggi restituisce ad Antonia il giusto riconoscimento alla sua opera. Antonia a distanza di 80 anni dalla morte continua a parlarci attraverso la sua opera finalmente ripulita da tutte quelle interferenze esterne che ce ne davano un ritratto falsato e artefatto restituendoci così tutta la portata del suo dramma di donna e di poetessa.

framo
Qui “voce colore dell’acqua/ancora viva/fra terrose prode”, altrove ninfea dalle lunghe radici “perdute/nella profondità che trascolora” o “fida tenace ancora … lenta e sicura fino alle sabbie segrete giacenti/sul fondo dell’essere”. Antonia oggi avrebbe mal sopportato ogni indulgere morboso sui drammi personali intorno alla sua fine terrena. Concentriamoci, dunque, sull’ascolto di questa voce nuda e cristallina che, con “nota/ampia e sola”, ha saputo, sa e saprà dire “i sogni sepolti/del mondo, l’oppressa/nostalgia della luce”. Per quanto in minima parte, contribuiremo così a restituirla alla sua pace e anche noi, forse, ne usciremo un po’ più pacificati. Immensa poetessa.

Ferruccio Palmucci
Molti anni fa, entrato in una libreria, presi in mano il volume di poesie “Parole” di Antonia Pozzi, per, me. allora, del tutto sconosciuta. Ne sfogliai le prime pagine leggendo qua e là, e subito fui colpito dai versi di una poesia: “Solitudine”. Non andai oltre ed acquistai il libro. Alcuni di quei versi mi restarono impressi nella memoria: “Tu cerchi invano chi possa / in quest’ora per un tuo voto giungere / presso il tuo cuore. / Vero è che nessuno / più giunge presso il tuo cuore / inaccessibile – / ch’esso è fatto solo – / dannato ai gridi / delle sue / rondini.” Ecco: se posso cogliere il senso della poesia della Pozzi, lo individuerei in un’anima fragile e sensibilissima che ama intensamente la vita, tanto da volerla vivere come poesia tentando il duro cuore della terra, consapevole che potrebbe esserle fatale perché, per dirla con Thomas Mann, a proposito del suo Toni Kroger, ” l’artista che non arriva alla vita, va oltre la vita.”

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