VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2018 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi, per ricordare il 2018 trascorso insieme e festeggiare il 2019 in arrivo, un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie! Un mosaico citazionale che viene liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di “commento dei commenti” del nostro blog.

Evviva dunque, e auguri cordialissimi! Che il 2019 sia per tutti voi un anno pieno di gioia e serenità! Sempre in viaggio, sempre mobilitanti, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco che anche quest’anno illustra questo post suggerisce!

E ancora auguri, auguri di cuore con questa propiziatoria, svagata e in fin dei conti saggiamente ragionevole filastrocca di Gianni Rodari che vale per piccoli e grandi a partire da stanotte e che dice:

Filastrocca di Capodanno

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

A domani!

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2018

Giacomo Trinci
La musica della sintassi svolge, in questa lirica di Montale, un discorso di programma che si apre ad una interlocuzione doppia: il tono confidenziale dell’ “ascoltami” iniziale è rivolto insieme ad un lettore e, più in grande, allude ad una tradizione, ad una storia delle forme della poesia. L’intonazione prospettica del componimento sottolinea il carattere fortemente dialettico del ragionare in versi di Montale:il carattere, insieme, di continuità verso la tradizione, rispetto alla grande rottura ungarettiana andata in scena con l”Allegria di naufragi”, e insieme l’abbassamento tonale del linguaggio, la modulazione di un tono nuovo, possibilistico-esistenziale, che costituirà una delle linee portanti, egemoniche del novecento posteriore a Montale. La rottura è frutto di questa ripresa-superamento della tradizione che, negli stessi anni, un grande poeta come Eliot definirà nel saggio “Stile e tradizione”. L’emozione che ci punge rileggendo questo componimento è data proprio dalla sua grande distanza rispetto al nostro tempo: frantumato che frantuma linguaggi forme, trita sintagmi, spezzetta ragioni afasiche… qui, ancora, l’alto ragionare da ginestra leopardiana affronta il negativo ed, ancora, lo contiene caparbiamente.

La meravigliosa secchezza della tarda stagione poetica di Caproni è la continuazione di quella musica acerba e squisita dei primi versi giovanili, della magrezza colta e casta della fase centrale del “Seme del piangere”; il filo sottile e tenace insieme che lega le stagioni poetiche di Caproni e’ dato proprio da questa capacita’ inesauribile di canto e musica che si piega alle diverse modulazioni esistenziali: matericita’ e metrica magrezza si fondono nel miracolo di un dire di trovadorica precisione, di puntuta ariosita’!

La veglia, il sonno, il corpo: tre attori della poesia di Betocchi, del suo dantesco viaggio nella natura naturante, nel folto di una creaturalità rivissuta in parola; questo fraseggio inconfondibile, che dalla fervida plasticità metrica di Pascoli, irrompe con nuova freschezza in queste strofe miracolose de “Il dormente”, ci dona il risveglio di una poesia antica e nuova: una lingua della poesia che si aprirà, in seguito, in modo sempre più perspicuo, ramificato, vertiginoso, al potente dettato del realismo del simbolo, dopo questo vivo, ventoso realismo della realtà tipico del primo Betocchi. Un padre della poesia: ruvido e dolce, accogliente ed aspro, di fanciullo eterno.

Antonietta Puri
Pasolini
incarna l’anima malinconica, quella predisposta a un “desiderio di bellezza infinita, commisto col profondo sentimento della transitorietà delle cose, delle proprie manchevolezze, dell’aver perduto la posta” (R. Guardini, “Ritratto della malinconia”); questa è la vera malinconia, uno stato d’animo che postula un irriducibile desiderio d’amore, di eros in tutte le sue forme, dalla più elementare alla più elevata e la poesia di Eduardo a Pier Paolo è la risposta post mortem a tale bisogno, è una dichiarazione d’amore, di stima, di empatia, di ammirazione, di bontà, perché i due erano la stessa cosa: due clown tristi – un po’ trickster, un po’ pazzi, un po’ tragici – in buona compagnia con Totò e con Ninetto Davoli e, se fosse stato possibile, con Chaplin, col Matto dei Tarocchi, con le figure di Chagall, con Pinocchio…-; entrambi (e tutti gli altri) espressione della lotta dell’ anima contro i tormenti della carne, simboli di chi sdrammatizza facendo sorridere, ma anche di colui che prende gli schiaffi, del capro espiatorio, di colui che, alla fine del salmo, viene ucciso (e nel volto del Cristo Pasolini aveva già incontrato la figurazione ultima di questa simbologia).
Figure simili che si specchiano tra di loro e si intercambiano, saltimbanchi dell’anima ( direbbe Palazzeschi)… Pasolini è uno che in tutta la sua opera adombra il viaggio nel mondo infero, è uno che che frequenta gli abissi, uno che per i “normali” è Ombra; e da chi si fa accompagnare in questo viaggio nel caos alla ricerca dell’ordine? da Virgilio? dalla Ragione? No… Lo accompagnano quelli che gli sono simili, quelli che fanno ridere, ma dicono la verità, quelli che vanno incontro alla morte da predestinati, gli intermediari tra l’alto e il basso, tra i padroni e i servi, tra la cultura e l’ignoranza…, ma che sono depositari di una dolcezza, di una pietas, di una capacità d’amore infinita: i poveri cristi che sperano ancora in un “Cristo povero”.

“La verità, vi prego, sull’amore”, chiedeva Auden. Come ogni lettore di poesie, anch’io mi sento autorizzata a dichiarare che certi i versi che vanno a sfiorare le corde più profonde della mia sensibiltà sono stati scritti per me, perché mie e riconoscibili sono quelle sfumature – dalle più cupe alle più luminose – delle emozioni che vi sono sottese e perché il poeta che le scrive è un conoscitore di intimità. Dedizione appassionata ed esclusiva? Energia tesa a dare e ricevere felicità e voluttà? Inclinazione basata sulle affinità elettive? Un abbandonarsi remissivo all’altro, come a un dio…? Poiché la richiesta di Auden è rivolta anche a me, io risponderei: l’amore è uno specchio, profondo e misterioso in cui io riconosco i miei bisogni affettivi e tento di rintracciarvi il modo per appagarli. L’amore fa capo all’anima, è nostalgia dell’anima, è ricerca dell’essenza e il poeta è il suo officiante, è il delegato privilegiato a sondare, a confessare, ad esprimere questa che è la smisurata tra le emozioni umane e lo fa dandole un linguaggio fornito dei “materiali” sui quali poi si conformano i modelli di emozione, raggiungendo talora toni così intensi che le sue parole diventano i nostri sentimenti… Questo sa fare Salinas: egli è poeta di sensualità e di passione ma, soprattutto, è poeta d’anima, quell’anima che ha meno a che fare con il fuoco del desiderio che con l’aria, quell’ anima che “è il bersaglio della freccia, il combustibile del fuoco, il labirinto in cui l’eros intreccia la sua danza (J. Hillman, “Anima”, Adelphi, 2003). Salinas, specchiandosi negli occhi della sua donna, cerca la sua e la propria essenza, quel “quid” che trascende le contingenze e che sfugge a ogni tentativo di “cattura”: devota eppure volubile,generosa eppure ritrosa, nuda e al tempo stesso velata.

Nel saggio “Autoritratti a richiesta” che fa parte di “Saldi d’autunno (Bompiani, 1990) Gesualdo Bufalino (1920- 1996) offre una testimonianza di sé soffermandosi ripetutamente sulla sua lunga riluttanza a dare alla stampa le sue opere, cosa che avviene per la prima volta nel 1981, “all’età quando gli altri smettono”; di ciò lo scrittore di Comiso tenta di dare una spiegazione, forse più a se stesso che ai lettori, dicendo che questa nasce non da un “disprezzo per il prossimo, bensì da una discrezione nativa, dal gusto di starmene al sicuro in una tana a guardare”. E continua. “…ho visto troppe volte spegnersi in lontananza i tamburi della gloria per credere facilmente agli scampanii del successo. E infine: per me un’opera può dirsi veramente viva se, e finché è inedita, mobile, trasmutabile ‘ad libitum’ come la vita. La pubblicazione è viceversa una specie di funerale, la consegna a una lapide. “E poi ci è cascato anche lui…, e non solo con la narrativa, ma con la poesia che – sono ancora sue parole – “fu nell’infanzia una pratica furtiva”, qualcosa di cui vergognarsi, “un vizio solitario che, come l’altro, aveva per confuso traguardo la morte”. Le sue poesie, raccolte nella silloge “L’ amaro miele”, nell’instancabile propensione del loro autore a “maneggiare” e manipolare i generi letterari, non disdegna, come in questo caso, la rima e la forma chiusa; le liriche sono misteriose e tenere, struggenti di memoria e di presagi; parlano d’amore sperato, ricordato , immaginato, in quella sua scrittura unica e inconfondibile, elegante, baroccamente cesellata e soprattutto soffusa di quel sentimento di Sicilia, tra “solitudine e ‘isolitudine’ “, dove ricorre il richiamo anche a quel mondo di cantastorie e di pupi che avrebbe introdotto più tardi in molte opere di prosa. Una curiosità: l’irresolutezza bufaliniana fu estesa anche ai suoi rapporti affettivi e chissà che non si trattasse di una prudenza atavica a non darsi per non perdersi…? Nello stesso anno in cui il Nostro si decide a pubblicare “L’amaro miele”, alla verde età di 62 anni, Bufalino contrae “prudentissime nozze (premeditate per quasi un quarto di secolo)” con una sua ex allieva. Grandissimo Gesualdo Bufalino nel quale non stento a ritrovare (con intatta la sua unicità) un Borges italiano!

Sabrina Titone
“Come un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno, / impiccato da ragazzi a un fico, / … / come un serpe ridotto a poltiglia di sangue / un’anguilla mezza mangiata”. Nei versi di “Una disperata vitalità”, in “Poesia in forma di rosa”, Pasolini quasi preconizzava il destino delle sue spoglie. Ma la poesia ha voce che resiste ai pestaggi ed alla morte. E di Pasolini echeggia ancora oggi l’urticante vaticinio, e noi dice, come nei versi de “Il glicine”, in “Poesie incivili (aprile 1960), La religione del mio tempo… “Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa./ E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il il senso delle parole: / chi finora ha parlato, con speranza, resta / indietro, invecchiato. (Non serve, per ringiovanire, questo / offeso angosciarsi, questo disperato /arrendersi! Chi non parla è dimenticato”.

Duccio Mugnai
Anche nei riconoscimenti del “buffo”, spesso ravviso in Palazzeschi un’amarezza profonda e nascosta. Così, è l’ossessione di vacua mortalità presente in questa poesia, dove la porta è passaggio terrifico e infero tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Al di fuori la gente, stupidamente, vive e giudica. Altrettanto terribile, a mio avviso, è la descrizione dell’anima di Firenze, già ben chiara all’autore negli anni trenta. Così, nel “buffo” delle Sorelle Materassi, c’è la presa di coscienza lancinante. C’è la Firenze di Bellosguardo, Piazza della Signoria, Ponte Vecchio, Poggio Imperiale… C’è la Firenze di Le Panche, Quarto, Quinto, Sesto, Campi, Novoli, Brozzi, Coverciano… Ci sono le “povere” Sorelle Materassi, incapaci ed impossibilitate a vivere, e c’è il “furbo” nipote Remo.

Poesia letta e riletta un’infinità di volte, tanto che alla lettura di oggi mi trova veramente stanco, amareggiato, ma non più sorpreso di fronte allo scatenarsi sclerotico e banale del male. Così il simbolo si profila incisiva suggestione, che travalica il mondo umano, si rivolge disperante al cielo, al suo pianto di stelle, una bellezza ossessiva e lacerante della natura, che invade “quest’atomo opaco del male”. Questo verso giostra una pluralità semantica alla fine della composizione. Pascoli davvero introietta tutto in se stesso, in un fondo inspiegabile, solo paradossalmente avvicinabile tramite “il fanciullino”; l’allegoria naturalistica, sinfonica e mirabolante dell’universo, il dato momento vissuto nell’oggettività e nella temporalità del presente e la proiezione dell’anima, opaca, scura come la marcescenza psichica e spirituale di cui si ciba la lirica del poeta e da cui il protagonista-scrittore non può liberarsi.

Un’impostazione ed una forza lirica che si sprigionano da un’invocazione incessante e violenta al Signore (“Herr”). Più che una preghiera, questa di Paul Celan è una rivendicazione, una rabbia senza requie, la denuncia coraggiosa e disperata di aver dovuto subire la crudele idolatria di altri, essere stati costretti a bere “Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.”. L’espressione “siamo vicini, Signore”, ha duplice e più profonda, valenza. Vuol dire anche: “Non siamo lontani dal tuo dolore. Ne condividiamo tenebre e solitudine.”. Un dolore immenso di fronte agli occhi di Dio, che non si può capire. Una condivisone con Dio, nella più oscura tenebra.

Rosalba de Filippis
“Scolpire ” “lignificare” “fissarne” ancora “scolpire” , infine:”dire” il mare. Il materiale forse per eccellenza per Caproni in quanto di una maestosita’ e di una vitalita’sfuggenti. Dire e scolpire il mare: una grande sfida. La’ dove la parola per Caproni tende a fissare, a “dissolvere l’oggetto” , la stessa consistenza materica delle cose. La scrittura aforistica di “Res amissa”, sara’ infatti ‘il punto di approdo di una riflessione sul potere erosivo della parola; riflessione che fa di Caproni uno dei piu’importanti poeti del Novecento.

Davide Boera
È come se tutta l’opera di Kavafis fosse un’unica cantica ininterrotta dove il poeta greco intrappola, con i suoi versi, le ombre che le cose della vita proiettano sullo schermo dell’anima: l’incompiutezza dell’esistenza, l’inafferrabilità del piacere, il rimpianto nostalgico dell’istante impermanente, l’implacabile imperativo del desiderio che mai si adempie fino in fondo. Chiedendo un prestito a Montale, Kavafis bagna nella luce greca della storia antica e del mito una ricerca, che si sa già fallita, di quel “bandolo” che non torna mai. Come mai non tornano i conti che ci ostiniamo a sbagliare sulle nostre incerte dita, senza capirne il perché.

Mario Benedetti. Anche con lui l’incontro fu molto causale e fu con la sua morte. È quasi stupefacente che alcuni degli autori contemporanei che ho amato di più li abbia conosciuti per il tramite della loro morte. Un’altro fu Riccarelli. La sua poesia sa meditare: “Non ti salvare” che sa di Kavafis, “Mi serve e non mi serve”… La sua poesia sa amare, come in quella postata da Marco e in tante altre… La sua poesia sa anche mordere: Mario Benedetti è anche un poeta politico, la cui voce non è attutita nemmeno dalla polvere del tempo, come nella sua rilettura del Padre Nostro. Ma soprattutto la sua poesia sa tirare “Sassolini alla finestra” in quella strenua “Difesa dell’allegria” che in fondo in fondo ricorda un po’ quella del nostro Ungaretti. Un grande poeta, che si apprezza meglio nella pronuncia rioplatense.

Damiano Malabaila
Uno dei vertici espressivi di una raccolta strepitosa come “Onore del vero”…  E’ proprio “tellurico”, qui, in “A mia madre dalla sua casa”, Mario Luzi: riesce a cogliere e trasmettere i ritmi atavici dell’esistenza, e una sua originale epica dell’umiltà.

In questo capolavoro di Montale non riesco a non vedere un inizio, se non una rivoluzione… Ormai, oltre all’inesauribile valore del testo in sé, funziona nella nostra mente come innesco di tutta una poetica che sembra, ancora oggi, completamente necessaria. Mi dissi: “I limoni”! – e il nome agì…

Saranno i tempi di crisi (anche se morbida, pur sempre crisi), ma oggi i poeti non mancano: molti, in genere colti, attivissimi, quasi tutti con il loro rispettabile demone… Poi ci sono i poeti veri, molti meno: quelli che vale davvero la pena leggere e che probabilmente rimarranno; e poi ci sono quelli bravi, come Giacomo Trinci e – almeno secondo me – pochi altri: sono quelli che hanno il dono di rendere profondamente necessaria ogni loro occasione di poesia.

Isola Difederigo
Strana creatura Dina Ferri, così obbediente al festoso richiamo della natura, e così docile al fascino segreto della scrittura fin quando questa diventa per lei, per i suoi vent’anni irreparabilmente segnati dall’immagine della fine, un allarme e un rimorso. Oltre le circostanze di un “caso” umano e letterario, Dina continua a parlarci oggi, dalla sua solitudine piena di silenzi e di tante voci, con la forza e l’evidenza lirica di una vera scrittrice; una di quelle, come avrebbe detto Luigi Baldacci, che non lasciano le cose
come stanno.

L’animalismo di Tozzi, quale si profila anche per via di acquisizioni letterarie e scientifiche sulla scorta di quella prima intuizione estetica “Gli uomini sono nati dalle bestie” (in “Paolo”, il poema in prosa del 1908) annullatrice di distanze – preannunciata dallo sfogo autobiografico della lettera di “Novale” del 15 settembre 1907, che fa stimare gli uomini “affini alle bestie”, “un pezzo di
carnaccia con le budella sudicie dentro”, e invocare per sé la metamorfosi in “uno stocco di granturco” -, si disloca all’interno della pagina in un vastissimo campionario di disumanità
che vede gli animali protagonisti alla stregua degli uomini, competitivi con essi nel fornire esempi di crudeltà o più spesso loro vittime, e nel parallelo affiorare di un subumano che conserva
fattezze bestiali, impronta dell’antica origine. In questa prosa di “Bestie” l’autore propone una casistica di come si uccidono i rospi al modo di un narratore realista; con un più di accanimento
espressionistico nella resa scrupolosamente analitica di particolari repellenti che richiama alle immagini dei rospi tante volte effigiati nel suo primo periodo simbolista da un artista a Tozzi fraterno come Lorenzo Viani.

E’ il Palazzeschi sonnambolico e fachiresco prima maniera, murato vivo dietro questa fatiscente porta-sepolcro. Quanta strada da qui, dalle chiusure e interdizioni autoinflitte di una “gioventù malata”, alle trasparenze liberatorie e responsabili autoinganni di una provvidenziale “casina di cristallo”, dove l’“antico solitario nascosto” riconosciutosi finalmente poeta non avrà più nulla da nascondere a chi lo sta a guardare. Tra un prima e un dopo la scoperta del comico e l’adesione al futurismo, l’esibita eccentricità ora morbosamente ipnotica ora giocosamente ironica e beffarda di un
raffinatissimo voyeur con l’ossessione della “gente”.

Marco Capecchi
Poeta del disgelo, Evgenij Evtušenko, che introduce temi intimi nella poesia sovietica rompendo i canoni del realismo socialista e della retorica di regime. Un poeta che nonostante la sua adesione al partito comunista russo ha saputo innovare l’espressione artistica del suo paese.

Bella poesia per ricordare il 25 Aprile. Gatto rimane poeta immenso anche in queste circostanze e ci vogliono cuore mente e occhi giusti per apprezzarlo.

Di Pasolini colpisce e sorprende in ogni reiterata lettura questo raccontare la storia nella sua materialità più profonda, nella sua carnalità più intensa eppure riuscire a dirci lo spirito di uomini e donne, il loro sudore e il loro anime.

Maria Antonietta Rauti
Ricordo ancora come se fosse ieri il nostro incontro tra i sui amati libri della Palmaverde… Grazie Professore Marchi per avermi regalato l’occasione di conoscere Roberto Roversi. La politica marxista del grande Poeta della Palmaverde lo porta a pensieri lontani nel tempo… Immedesimandosi in riflessioni profonde sfiora eternamente l’anima di chi continua a leggere le sue parole attente, pensate e scritte..

Qui è già tutto Campana. I confini del tempo e dello spazio si annullano ad opera della memoria. “Quel ricordo” posto in posizione di rilievo mette sull’avviso il lettore: non di descrizioni realistiche di luoghi e di persone si tratta, come potrebbe sembrare di primo acchito, bensì di una trasposizione tempo­spaziale, di una trasfigurazione simbolica della realtà, dove i confini tra passato e presente sfumano in virtù di quella, per dirla col poeta, “suggestione”, che gli consente di percepire, attraverso il silenzio profondo, le voci lontane, la “nenia primordiale”, quel “mito lontano e selvaggio” quasi fosse stato in stato d’in­coscienza, addirittura “in trance”, com’è stato detto. È la dimensione dell’inconscio dal quale il poeta coglie folgorazioni che, come lampi improvvisi, illuminano l’oscurità, il mistero in cui è avvolta la realtà. È in questi momenti che il poeta carpisce brandelli di verità, altrimenti incomprensibili e li fissa in un linguaggio in cui “l’insistenza ripetitiva si svolge come il dettato di chi sogna o è intorpidito dal sogno, ma interrotto da trasalimenti e cesure secche come il ” … e del tempo fu so­speso il corso”, per dirla con le parole di Fortini.

Sicuramente meraviglioso il verso de “…il campo inciampa nel mandorlo”, nella poesia “Il fulmine” di Yves Bonnefoy. Il poeta va oltre la visione, sconfina la potenza del significato, fa proprio, rendendola originale ed unica qualsiasi azione… un vero Poeta inciampa per far porre l’attenzione al lettore sulla piccole cose o sul “comune” che a volte non si vede, o si scorge distrattamente.

Roberta MestrelliBerti
La vita… una prigione opprimente; la morte… un volo verso la libertà e la bellezza della natura che Antonia Pozzi amava… Anche le sue foto, fatte con occhio di poeta, dimostrano questo suo sentire la natura come unica casa benevola in cui rifugiarsi!

Ci sono poeti, come Trinci, che riescono a mettere in poesia la vita vera, e di essa anche i momenti più dolorosi. Così commuovono, nel senso che muovono emozioni, ma nello stesso tempo consolano perchè le parole della Poesia rendono il dolore condivisibile e quidi più accettabile. La rileggerò ancora.. e attraverso le sue parole abbraccerò il mio dolore.

Brodskij, l’acqua, il mare, il vento “..nella parte ventosa del mondo ho trovato un riparo..” Grazie, Marchi, per avermi fatto conoscerre questo poeta che.. mi fa ricordare i quadri di Andrew Wyeth.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Sentori d’Oriente per questo notturno in cui le umane vicende con il loro travaglio e il loro bagaglio di dolore non scalfiscono l’imperturbabilità della natura, indifferente e crudele. Neppure la sultana che pure percepisce un turbamento dell’incanto notturno si rende conto appieno della dura realtà: tra metafora della vita e misteri d’Oriente Victor Hugo ancora una volta ci affascina con i suoi versi sapientemente orditi in quartine a rima incrociata, impreziosite da rime equivoche e ripetizioni in cui il finale a sorpresa arriva facendo irrompere la crudeltà del reale nell’incanto da fiaba.

Fin dagli esordi ermetici la poesia di Luzi è permeata d’inquieta e trepida ricerca di risposte all’enigma esistenziale e affronta, senza mai eluderli, i grandi temi civili e umani che la storia di volta in volta propone, cercando di penetrare nei meandri più cupi e tenebrosi dell’animo umano, proponendo, supplice, nuove intese e nuove possibilità di convivenza civile in nome di una comune umanità. La sua voce risuona, dunque, alta e forte nei momenti di maggior smarrimento della nostra vicenda di uomini del XXI secolo in quanto Luzi sente di avere, in quanto poeta, l’obbligo morale di farsi interprete dello smarrimento della società di fronte ad accadimenti sconvolgenti come terrorismo, attentati, stragi, nella consapevolezza che solo attraverso il rispetto e l’amore per l’uomo la nostra civiltà potrà trovare risposte ai grandi problemi della storia.

Un capolavoro assoluto, questo testo di Rilke: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall’”uscita chiara”. Poesia sublime, che ci consegna l’incolmabile abisso che separa i vivi dai morti.

Ilaria 77
Che belle le parole di Montale, semplici e piane, piene di luce; così come i limoni, gialli e puri, freschi d’estate e odorosi di vita si insinuano nelle pieghe di esistenze misere, di cuori inquieti.
Lo stesso poeta trova nella loro visione un ristoro quasi infantile al tormento del proprio esistere, e a noi sembra di vederli, i limoni, giocare a nascondino tra gli alberi, tra le strade di campagna e i fossi d’acqua verdastra, tra gli schizzi di piedi di bambini; così come un barlume di gioia, a volte, fa capolino tra i giorni grigi di una vita senza gioia.

Ferruccio Palmucci
Molti anni fa, entrato in una libreria, presi in mano il volume di poesie “Parole” di Antonia Pozzi, per, me. allora, del tutto sconosciuta. Ne sfogliai le prime pagine leggendo qua e là, e subito fui colpito dai versi di una poesia: “Solitudine”. Non andai oltre ed acquistai il libro. Alcuni di quei versi mi restarono impressi nella memoria: “Tu cerchi invano chi possa / in quest’ora per un tuo voto giungere / presso il tuo cuore. / Vero è che nessuno / più giunge presso il tuo cuore / inaccessibile – / ch’esso è fatto solo – / dannato ai gridi / delle sue / rondini.” Ecco: se posso cogliere il senso della poesia della Pozzi, lo individuerei in un’anima fragile e sensibilissima che ama intensamente la vita, tanto da volerla vivere come poesia tentando il duro cuore della terra, consapevole che potrebbe esserle fatale perché, per dirla con Thomas Mann, a proposito del suo Toni Kroger, ” l’artista che non arriva alla vita, va oltre la vita.”

Lector
Buon compleanno, caro Aldino [Palazzeschi]! Sensibilissimo e profondo osservatore di te stesso e del prossimo, esilarante e trasgressivo artefice di un comico che si regge sul tragico.

Per celebrare questo grande poeta ci vogliono le parole di Harold Bloom: “If you are American, then Walt Whitman is your imaginative father and mother, even if, like myself, you have never composed a line of verse. […] Walt Whitman was the crucial celebrant of what I think we yet will call the American Religion, the momentary fusion of all denominations in an amalgam of Enthusiasm and Gnosticism that marked the beginning of the end of European Protestantism in America”.

Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso la quale si accende da parte del lettore colto quel concetto di “oggettività d’ammirazione”, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta della semplicità stilistica, riecheggiante – almeno in questo testo – una cadenza pascoliana: come i rapidi e semplici quinari conclusivi di ciascuna strofa. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.

Un Gadda strano, aperto al sentimento lirico, ma fugace, come dimostra l’esimia sua opera poetica (non più di una decina di poesie). Il più dolce Gadda apatico si condensa tutto in questa lirica, che rivela quella sua anima fulgida e algida, così desiderosa di comprensione e di visibilità amorosa (l’unica visibilità da lui concessa a se stesso; niente pubblico, nessun plauso). E l’autunno non può che essere, fra le stagioni, quella che più si fa specchio introiettante di Carlo Emilio, ora non più solo il nevrotico Gadda: due facce della stessa medaglia, o meglio, della stessa persona. Si smussa il suo continuo ribollimento nevrotico-nevrastenico di nevrastenie da gigante buono; si spezza il continuum operoso del non finito, della lingua finalizzata allo scandalo verbale (e Pasolini tanto si ricorderà di questa sua lezione), della scoppiettante registrazione del (suo) mondo distorto. Solo nella poesia, Alì Oco de Madrigal (anagramma del suo nome in “Eros e Priapo (da furore a cenere)” (1967) si personalizza, si liricizza e, psico-analiticamente parlando, si sublimizza.

La patria è da sempre stata utilizzata come analisi stereometrica della società, in primis, e della civiltà, in secundis. Il sentimento di Pasolini verso la nozione di nazione è notevolmente cambiato nel suo iter scrittorio: se agli inizi della sua sperimentazione poetica egli si lasciava trasportare dalla “rosada” dei contadini friuliani, nuova “élite” anti-capitalistica a cui rivolgersi – espressione di una semiotica verginità e di una casto significante – progressivamente l’idea e l’ideale di nazione abitata da uomini puri in quanto creature etimologicamente innocenti – cioè non in grado di nuocere – si abbuia in conseguenza dello sviluppo neocapitalistico, conformistico e conformista: è quest’ultimo, un calderone, un guazzabuglio di benesseri effimeri, di gratuite e politicizzate spettacolarizzazioni borghesemente sconce e prepotentemente affacciatesi sull’Italia degli anni ’60. La classe è il nemico, perché a lei manca la coscienza. La dominante e squallida categoria dei perbenisti tuttofare, degli indigenti del non-scandalo: la borghesia, insomma, sempre prona alla legge economica, al prodotto, campione del potere e verga della moralità, sallustianamente simulatrice e dissimulatrice. È l’imperversare di questo rivitalizzato ceto sociale a contraddire la purezza, il candore di quell’Italia contadina, basso-proletaria ormai passata, obliata, né più mai (ri)attuabile. A Pasolini non rimane che combattere, gettando il suo corpo nella lotta, tutte le forze negative del moralismo ipocrita nazionale, riflesso dell’incapacità critica e della faciloneria più ignorante. Lotta che, purtroppo, pagò con la vita.

tristan51
Si può dire di Brodskij quello che lui diceva di Anna Achmatova, cambiando solo soggetto: Iosif Brodskij è uno di quei poeti che semplicemente ‘avvengono’, che sbarcano nel mondo con uno stile già costruito ed una loro sensibilità unica. Arrivò attrezzato di tutto punto e non somigliò mai a nessuno”.

Magnifico studio di chiarità, di bianco, di luce. Una testimonianza in atto di come la poesia sappia infrangere i confini tra la vita e la morte (si pensi ad un’altra sottovalutata poetessa del nostro Novecento: Cristina Campo), e un testo intenso come i testi di Antonia Pozzi sanno essere.

Il mondo visibilizzato protagonista di molti testi di Czesław Miłosz: una buona garanzia del rapporto che in solitudine il poeta instaura con il reale che lo circonda, fino a rivolgerglisi, invocando ed apostrofando, come magnificamente fa un autore importante del nostro Novecento come Andrea Zanzotto.

Antonella Bottari 
Versi della memoria questi di Sereni, che innescano un meccanismo associativo da cui vivido emerge il ricordo. Non è poesia d’ “occasione” intesa nel senso montaliano del termine. Come ben sappiamo, e in siffatto contesto è utile ricordarlo, Montale asseriva che: ” ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro tra l’ occasione e l’ opera oggetto bisogna esprimere l’oggetto e tacere l’ occasione – spinta.” Sereni opera tale spostamento che non è manifestamente il correlativo oggettivo che ci appare nel titolo. Piuttosto la malattia dell’ olmo si fa metafora di una memoria dolorosa, così come per la pianta il parassita che la sfalda, che la consuma. Al poeta allora non resta che chiedere un lenitivo alle sue ambasce, alla tenerezza del ricordo che è componente del ricordo stesso. Così, per tenerezza si può scivolare nel sogno che forse è vita, come ci suggerisce Calderòn, nel percorso sinestetico tra occhio e cuore, nel segno di una stella.

Quasi alla fine della vita Leopardi pose Arimane al centro dell’universo, senza mutuare, però, dallo zoroastrismo Ormuzd, principio luminoso del Bene. Nell’inno Leopardi compì l’ultimo passo che ancora lo separava dall’approdo ad una vera e propria religione del Male, di cui egli si riconobbe massimo sacerdote, sia pure fremente e recalcitrante; tanto da domandare ad Arimane la grazia suprema della morte, dal momento che la vita per lui era solo fonte di tormenti ed afflizioni. Possiamo ipotizzare che l’inno “Ad Arimane” non è una forma di adorazione del Diavolo ma la proclamazione che solo il Diavolo esiste e che la Creazione è totalmente e interamente malvagia. Non si tratta di satanismo contrapposto al teismo ma di un monoteismo diabolico che esclude ogni idea di bene dalla faccia del mondo. Tuttavia Leopardi riconosce che in realtà esiste qualcosa che – se non è il bene – è, perlomeno, un’aspirazione verso di esso, là dove domanda allo stesso Arimane: “Perchè dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere?”. Si potrebbe ipotizzare che quelle apparenze di bene siano state poste da Arimane al solo scopo di poter meglio illudere, e quindi tormentare, le creature viventi. Resta il fatto che Leopardi soffre al punto da invocare la morte; da dove gli verrebbe quella consapevolezza del proprio soffrire, quel desiderio di aver pace e riposo, sia pure nella morte, se gli uomini non possedessero una pur vaga e indistinta aspirazione alla felicità e al bene? Se l’uomo si ribella al male e si lamenta e cerca, quando può, di superarlo e di sconfiggerlo, è segno certo che vi è in lui un’idea, un germe, un istinto del Bene. Cosi è forse nello stesso animo del Poeta che inneggia al suo Arimane con profonda amarezza e dolente sarcasmo, come avvertendo la contraddittorietà di porre il mondo sotto siffatto, crudele dominio. Eppure rimane cantore del Male eterno, immutabile, irredimibile.

Una delle poesie più famose di Emily Dickinson, e scritta come una sorta di racconto, uno svolgersi dei fatti che dà una sensazione di familiarità, con appena un accenno a nostalgici ricordi, pervaso tuttavia da un senso di gelo concretizzato nella rugiada che scende sul corpo vestito di garza e tulle. La morte è gentile, ma comunque decisa a rispettare i suoi appuntamenti. E l’ultimo viaggio si fa in solitudine, noi, la morte, e quel mistero insondabile che è l’eternità. Il percorso è lento: la morte, messaggera dell’eternità, non ha certo fretta. Il senso di lentezza è ulteriormente accentuato nella terza e quarta strofa: i bambini nell’intervallo, i campi di grano, il tramonto, la rugiada notturna, danno la sensazione di un percorso che si snoda nell’arco di un’intera giornata, quasi un rivivere la propria vita nel momento in cui finisce. Nella penultima strofa eccoci arrivati. La casa che abiteremo sembra un rigonfiamento del terreno, da dove sporge solo il cornicione del tetto. I secoli che passeranno saranno ormai senza tempo, brevissimi in confronto a quel lungo giorno in cui capimmo subito che quel viaggio apparentemente familiare era quello che ci portava verso l’eternità.

Arianna Capirossi
Pasolini
non fu un semplice poeta, fu un parresiaste. Nella sua vita si caricò del peso della verità, che veicolò in una letteratura in grado di descrivere nella maniera più perspicua le dinamiche storiche e sociali del secondo Novecento. Leggendo Pasolini si capisce perché e come siamo arrivati oggi a essere ciò che siamo; la sua parola è rivelatrice.

Intrigante la musicalità di questo testo, fin dal titolo paronomastico: “Il mare come materiale”. La poesia di Caproni è più efficace di una cartolina, catturando ogni singola espressione, ogni singolo movimento del mare. Mare che non è solo mare: è la natura tutta intera, è pietra (“cordigliera”, “scogliera”), è ghiaccio (“neve”), è materiale malleabile come il vetro (“Filarne il vetro”) o il legno (“lignificare”), e, infine, è uomo (“il volto / del dileguante”). Caproni riesce a descrivere il corpo universale del mare, brulicante di forme di vita (anzi, di forme tout court), come uno scultore del linguaggio, perfettamente consapevole dell’essenza di ogni parola, sia per significante che per significato. Il suono e la materia si fondono in una poesia che, in quanto a forza espressiva, non ha nulla da invidiare al prodotto di un’altra arte, la scultura, qui emulata.

Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l’unica vera compagna del poeta Cesare Pavese. Quel “vizio assurdo” che suscita in lui un’irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all’assenza, all’incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell’oblio.

Virgilio in primis e poi autori come Pavese, Vecchioni si sono soffermati sullo sguardo di Orfeo e sul perché si sia voltato, pur sapendo a quale conseguenza sarebbe andato incontro. Rilke, invece, offre una diversa prospettiva, quella di Euridice. La giovane sposa di Orfeo procede “incerta, mite e senza impazienza” la strada che porta “su verso la vita”. A differenza dell’uomo, Euridice non è di passaggio nella dimensione abissale degli Inferi, anzi, ormai ne fa concretamente parte, ne è “radice”. Non le interessa più tornare a vivere, ad amare perché la sua vita l’ha già vissuta. Per questo sembra non comprendere le parole di Ermes che le rivelano che Orfeo non ha mantenuto fede alla promessa e, quasi indifferente, anche lei si volta indietro per tornare eternamente nella “miniera delle anime”.

Yumiko Nakajma
Mi sembra che Antonia Pozzi sognava di tornare alla sua infanzia dolce e candida che si poteva vedere dalla creste di monti, all’altra riva, ai prati del sole.

Tania Montini
La poesia di Giorgio Caproni affascina per l’immediata comunicatività e per la tipica musicalità che sa tenere insieme leggerezza ironica e meditata malinconia. Il suo carattere anti-intellettualistico e dei suoi versi poggia sulla ferma convinzione che, solo facendosi comprendere, la parola poetica possa trasformarsi in vero strumento di azione e di conoscenza, caricandosi delle tensioni e delle contraddizioni del suo tempo. Le sue sono parole semplici e a rime convenzionali che diventano il contrassegno di una poetica estremamente originale. Egli ha saputo dare dimostrazione di come, in un tempo di astruse astrazioni concettuali e dello svuotamento di significato del linguaggio comune, la poesia possa farsi parola di inaudita levità e chiarezza, senza rinunciare all’ambizione e alla responsabilità di riflettere sulle inquietudini di un’epoca, come il secondo ‘900 italiano, attraversato da turbolenze e trasformazioni civili spiazzanti.

Pietro Paolo Tarasco
Sono indimenticabili i colloqui telefonici con Attilio Lolini e poi, che emozione aprire la “nostra” cartella d’arte “Ore delle repliche”! Un ricordo e un pensiero profondo.

Maria Grazia Ferraris
Il grande Sereni di “Stella variabile”: si presenta quasi con un racconto, di grande maestria: apparentemente lineare, in realtà doppio, complesso, a rimando nella sua forma e struttura. “Se ti importa che ancora sia estate/ eccoti in riva al fiume”…: un luogo – una stagione: probabilmente il Magra,(quello del Posto di vacanza) la fine dell’estate, un interlocutore incerto, (uno dei suoi molti amici con cui condivideva le vacanze?), ma che potrebbe essere anche il proprio doppio osservante e meditante, e un protagonista apparentemente vitale: un olmo dalle foglie roseogialle, belle da sembrare fiori, che si squamano… In realtà, nonostante la bellezza dei colori, l’olmo sta morendo. Ma “più importa” che la gente distratta trascorra con allegria le sue ultime vacanze … Il tu, monologante nella che luce cambia, e i colori spenti nel buio conducono a un invito-invocazione: “Guidami tu, stella variabile, finchè puoi..”. Fa incursione un insetto molesto e ronzante, una zanzara, punge e brucia, come uno spino: il poeta chiede aiuto (alla vita?): “Vienmi vicino, parlami, tenerezza”, alla memoria, ché lo soccorra… Ma “la memoria/non si sfama mai.” E anche se viene tolto l’aculeo, nella ferita il fuoco permane. Rimane il ricordo del ricordo. Il paesaggio, come il fondale di un sogno, assiste alla metamorfosi dell’immagine ambigua.

Una poesia giovanile di Anna Achmatova, quando i catastrofici e drammatici avvenimenti della storia russa non l’hanno ancora piagata. Il tema è quello d’amore, il suo privilegiato, l’amore bello e terribile, l’amore che conosce in tutte le sue sfumature, la caratterizza e la assorbe in toto. Il suo merito è quello di riportare la poesia dal metamondo simbolista alla quotidianità alla concretezza, senza perdere sensibilità psicologica, acutezza percettiva, con abbandono misto a riserbo ed autocontrollo. La musicalità del verso, apparentemente dimesso, quotidiano è frutto di una raffinata ed elaborata ricerca e il canzoniere registra la sua vita sentimentale, la sua condizione di donna: ne conosciamo le abitudini, i mali, le confusioni, i dubbi, le solitudini, le sofferenze, le attese, le bizzarrie, le amicizie, i gusti….Sa raggiungere l’universo dell’eterna poesia.

Un tema comune a due Autori celeberrimi: la pienezza dell’estate in un luogo noto e frequentato: la Versilia, alla foce dell’Arno, il paesaggio marino, in entrambi i casi. Atmosfera privilegiata con enfasi descrittiva e con straordinari fonosimbolismi dal D’Annunzio, decentrata, spostata quasi provocatoriamente, disincantata, a risposta, nell’orto ligure desolato quella di Montale.
L’atmosfera dannunziana è quella mimetica, capace di esprimere la corrispondenza tra parole e cose come è caratteristico nell’Alcyone: mare- foce- sole- vento- sabbia-silenzio che ispirano panicamente il rapporto con la natura, come nella lezione accettata del miglior simbolismo, fino a che il poeta si dissolve nell’universo in una esperienza fuori dal tempo, nello smarrimento dell’identità umana in una esistenza atemporale. Emerge invece la volontà di rottura del simbolo in Montale: il paesaggio desolato -il rovente muro d’orto- il sole che abbaglia- comunica tutto il rapporto di divisione, di rifiuto del panismo tra la natura “ sconcorde” e il poeta, che tende a nascondersi negli infiniti (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire) che si incalzano, volutamente neutri, mentre la musica perde la sua contabilità e melodia naturale e diventa sillaba storta. Senza saper cogliere il mistero della natura, nell’inno dannunziano, rivelando le reali disarmonie, Montale richiama i suoni dissonanti dodecafonici della perdita dell’elegia. E anche i temi comuni: mare- terra si definiscono nella loro lontananza concettuale del disincanto: la vitalità del paesaggio si decompone nel messaggio della negatività.

Fulvio Venturi
Stupendamente tragica, stupendamente ingenua, Dina Ferri. La chiaritade della morte e della verginità nella sua poesia.

“Ode to a Nightingale” di Keats, la poesia della gelida consapevolezza della morte. E ispirazione del mio amatissimo Fitzgerald (“Tender is the night”).

Giulia Bagnoli
Crollata anche l’illusione dell’amore, la vita si presenta a Leopardi esattamente com’è: misera e senza senso. Come afferma Tristano: “accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera, la quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltá del destino umano”. Immenso Leopardi!

Una raccolta di poesie che è una sorta di rielaborazione continua del lutto, dove il dolore per la morte del padre diventa il canto di chi non trova pace e non sa farsi una ragione. Patrizia Valduga, invocando il padre, racconta anche la propria inadeguatezza ad essere figlia, come possiamo notare nei versi “Se ti avessi ascoltato quella volta, / io cocciuta, cocciuta ed incosciente”, e ad essere una donna, come quando scrive “Ma la maturità perchè mi è tolta? / Papà, io vivo vergognosamente / vecchia e malata e sempre adolescente”. La figlia implora il padre perché l’aiuti a rinascere (Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore, / fammi uscire da me, fammi trovare / favole di pietà, versi d’amore…) e a trovare dei versi d’amore in grado di darle un po’ di pace; a trovare sempre la parola poetica, quella che, talvolta, si “perde e mente”, perché per la poetessa è, ora più che mai, l’unico e ultimo conforto.

Ecco, come Cristina Campo sembra suggerire, il paradosso della poesia che mentre sfugge all’azione corrosiva del tempo, facendosi dunque eterna, muore. Similmente, come teorizzato da Barthes, avviene con la fotografia, che, se da un lato rende eterno, dall’altro uccide proprio con la sua forma fissa. La parola poetica poetica tuttavia è eterna nel suo morire e rinascere; nel suo tornare sempre ad essere una pagina bianca e il pugno chiuso prenatale. Soltanto così può farsi davvero speranza e alleviare il dolore.

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Nell’immagine finale, evocata dall’intuizione remota dei cavalli rivolti all’eternita’ (che sembra richiamare “l’esistere senza fine” dell’animale nell’ottava elegia di Rilke, il suo incedere con lo sguardo che “ravvisa il tutto immenso e se stesso – in quel tutto – salvo e redento per l’eternità”) avvertiamo – ben condensata – tutta la straordinaria capacità della Dickinson di vedere e di far apparire. Cara Emily, se – come tu stessa hai scritto in una lettera datata 1863 – “il Soprannaturale è solo il Naturale dischiuso”, le vertigini di pensiero e di possibilità sollecitate dalle opere della tua immensa mente immaginifica conservano immacolato e immortale il dono di coinvolgerci ed elevarci … per divina naturalezza. Poetessa meravigliosa.

Lo schioppettare di questo “fuoco che sbanda” esistenze inaridite e/o abbrutite potrebbe avere come sede eletta di combustione, alimentazione e propagazione una bella immagine contenuta ne “La natura della poesia”, immagine che bene esprime il concetto di Ellenismo domestico così come viene inteso da Mandel’stam: una “stufa accanto a un uomo capace di apprezzare nel suo tepore qualcosa di connaturato al suo stesso calore interno”. Esattamente il calore che promana dal “focolare avvertito come sacro” dell’opera di questo grandissimo poeta.

Tentare di definirsi nei tanti silenzi della notte che ci abita, nei motivi oscuri insiti a voce e vita. Dirsi come morte in vita e/o come vita in morte … in irrisolta, non componibile tensione. Presenze – ricordi – assenze, fede nella parola – fede perduta nel far poesia. In ascolto dei nostri vuoti più abissali, caricati fin dentro al midollo piu dolente delle ossa, sentirli ben presenti, ben più concreti di parole che, in fondo, sanno solo dire, tentare di fare altro … essere oltre parole ed ombre … spingersi a “dirsi i propri silenzi” … sempre più giù. Immensa Pizarnik.

Aretusa Obliviosa
Bastano pochi versi per capire come in Pascoli modernità e classicità siano dimensioni inscindibili. Si pensi al “concavo cielo” iniziale o all'”atomo opaco” dell’ultima strofa, spie letterarie di un poeta che poteva vantare un’ottima conoscenza della lingua e della cultura latina. Ma si notino anche gli aggettivi “romita” e “attonito”, legati alla nostra tradizione poetica ottocentesca. Eppure, nonostante questi echi evidenti, non c’è traccia di retorica in questa poesia, nella quale anzi questi stessi termini sembrano voler recuperare una dimensione primigenia, un senso del male terreno (umano, si potrebbe dire) e dell’universale che vanno oltre ogni limite spazio-temporale e che rientrano nella natura delle cose. A prevalere è un dolore irrisolto, un’inconclusa attesa, che attraverso la similitudine e soprattutto il simbolo (la crocifissione, il nido, le bambole) ben si inserisce nel contemporaneo contesto europeo.
Il “X Agosto”, come molti altri testi pascoliani, meritano di essere letti e riletti, per poter vedere al di là di una semplicità solo apparente.

Non posso leggere questa poesia senza pensare a quella tradizione anche letteraria che Pasolini amava e contrapponeva alla deriva contemporanea. È forse per questo che nel silenzio della morte, così come nelle urne e nella dimensione civile della seconda parte del componimento avverto una forte presenza foscoliana, quasi un appellarsi ad un recente passato già diventato mito – lo stesso Gramsci ne diviene qui alto esempio – da contrapporre ad un presente che, anziché manifestarsi vivo, si rivela paradossalmente in tutta la sua putredine e immobilità. Si veda in proposito l’insistenza sul campo semantico dell’umido. Eppure il paradosso più eclatante di tutti è in Pasolini il non poter non amare in maniera viscerale quel mondo che è oggetto stesso del suo biasimo. E questo paradosso è forse, più di ogni altra cosa, ciò che ancora oggi ci lega al Poeta e ci rende necessarie le sue parole.

Il giovane Federigo Tozzi, autodidatta ancora misconosciuto nella turrita e serrata Siena e in una Firenze fisicamente tanto vicina quanto intellettualmente lontana dal fervido spirito creazionale di certa provincia italiana, doveva certo sentirsi, non meno di Baudelaire, predestinato a un cimitero isolato, distante dalle sepolture celebri, come adesso lo era dai poeti laureati. In lui la consapevolezza che l’Arte è una lunga via da percorrere, ma anche la fiducia di sapersi gioiello seppur nascosto, fiore ancora diffidente dall’esalare il suo profumo. Come lei, Professore, ha sempre sostenuto, la vera biografia è da cercare tra le carte della letteratura e della scrittura. Solo questa dimensione resta per Tozzi cifra dell’esistenza.

Paolo Parrini
Questa immensa Poesia fu per me folgorante in quanto padre, oltre che per la sua bellezza incontestabile. Il Telemaco mirabilmente delineato dal Poeta, mi riporta alle esperienze dei padri di oggi e alla nostra cosiddetta assenza.Non più il Padre Padrone semmai un padre mancante, una sorta di Ulisse dei nostri tempi. Ma ecco che il Telemaco di Brodskij diviene archetipo dei giovani di oggi oltre il complesso edipico Telemaco raggiunge un passaggio nuovo:l’attesa del padre che non sarà forse il Padre eroe tanto atteso, ma incarnerà umanità e vulnerabilità. Telemaco aspetta dal padre di scoprire che la vita ha un senso, poi a lui toccherà capire quale sarà il suo cammino….tu sei libero, e sono puri i tuoi sogni, Telemaco… dice Ulisse, e in questa libertà un padre può cercare semmai di dare testimonianza di un esserci stato aver vissuto amato.

Mi sovviene leggendo questa Poesia bellissima, il “Congedo del viaggiatore cerimonioso” di Caproni. Pur nella diversità trovo una sensibilità comune molto forte, in fondo si parla della fine di un viaggio, quello della vita, che ci accomuna tutti e tutti noi tocca nel profondo. Krüger tesse un dialogo con i compagni di viaggio che è una parabola della sua vita e della nostra. Il poema delle strade, l’infelicità trovata negli occhi splendenti, la morte e l’immortalità . Adesso sta per arrivare alla fine , è stanco, dentro e fuori e si senta a casa con un pezzo di pane e del vino perché alla fine restano le piccole grandi cose, il calore di un abbraccio , per affrontare meglio la morte che ci attende. Anche Caproni descrive un viaggio verso la morte. Lui giunge alla disperazione calma , senza sgomento, e lo dice ai suoi ipotetici compagni del viaggio chiamato vita. Si esce diversi dopo la lettura di questi versi , e paradossalmente , forse, ci si sente un poco meno soli.

Quale folgorazione colpì Rimbaud e quale miracolo nei suoi anni imberbi quasi, e giovani molto… in un sospiro scrisse mirabili parole, Poesie eterne in un lasso brevissimo di tempo, come una candela che bruciava ardente e ansiosa di compiere il suo percorso vitale. Ofelia, personaggio shakespeariano dell’Amleto ripreso spesso successivamente da grandi artisti viene letto da Rimbaud alla sua maniera geniale ed unica. Tratteggia una Ofelia ferita, simile a un fantasma, col suo pallore e un grigiore diafano e quasi spettrale, e anche la natura partecipa a questo sentimento,”sull’onda calma e nera” ” sul lungo fiume nero”, Ofelia passa, Ofelia fluttua. Rimbaud si sofferma poi sull’intimo dolore della donna, sulla sua tristezza devastante.Ofelia smette di essere folle per divenire donna profondamente umana, dilaniata da quel dolore immane per la perdita dell’amore.Anche adesso la natura è con lei e partecipa al suo dolore… “le piange sull’omero il brivido dei salici”. Ofelia muore e si consegna al suo mito, in un connubio amore-morte che non può non commuovere oggi come tanti anni fa. Ofelia siamo un po’ tutti noi che amiamo e vivendo spesso dobbiamo accettare in qualche modo che l’amore nasce, e spesso muore.

Lorenzo Dini
La meravigliosa plasticità del mare caproniano ricorda gli altrettanti limpidi versi di Virgilio: dove sbalzato sullo scudo di Enea è il trepido mare, in cui le singole scaglie di bronzo delle onde riflettono il luccichio dei galeoni sovrastanti. Un gioco di specchi, che sfrutta il materiale bronzeo dello scudo e la plasticità del mare, con preziosa e cromatica raffinatezza. Il mare è tutto rigonfio, quasi in ebollizione, dove le code dei delfini dorati fendono i marosi, in un moto che è un continuum con quello delle onde. Delfini, che Caproni stesso mette in apertura dei “testi marittimi e di circostanza” e che preparano il lettore, in un crescendo di intensità, al mare in fermento di questa poesia. Attenzione tutta cromatica e plastica, quella che Caproni riserva al mare. Del resto, ci aveva già abituato nei versi dell’“Ascensore”, con icastica forza espressiva: “Ma là sentirò alitare / la luce nera del mare / fra le mie ciglia (…)”. Dove queste parole, in rima piana e semplice, interrompono la fraseologia franta, tutta dinamica, tutta dissonanza improvvisa. Così il filo di continuità dell’opera di Caproni, che sa entrare e passare con naturalezza ed eleganza da versi in origine musicali, nei più incisivi del quasi parlato, della sentenza, della maturità.

Roberta Artini
L’esperienza poetica della Pozzi non maturata per la sua tragica interruzione ed il forte carattere autobiografico hanno sempre vietato o almeno scoraggiato una precisa collocazione nel panorama della poesia degli anni trenta. Le manomissioni del padre sui testi, il ritardo della critica hanno poi di fatto contribuito a non stimolare un approfondimento della sua opera. Antonia nella sua vita è sempre stata prevaricata dalla volontà paterna, non solo per la sottomissione al volere della famiglia in virtù dei valori tradizionali, ma anche per la mortificazione di una sensibilità intellettuale in un’epoca storica e sociale in cui la donna non può avere nessuna possibilità di esprimere la propria emotività. Da questo nasce la solitudine che non sarà mai risolta neanche dalle amicizie più care. Il pensiero della morte è sempre presente nella poesia di Antonia. Dapprima appare in maniera leggera ma con il passare degli anni si fa sempre più pressante. Accanto alle poesie troviamo i diari, le lettere e anche un progetto di romanzo in una ricerca continua di ancorarsi a valori concreti e meno disponibile alla concezione della poesia come alternativa alla realtà. Evidentemente tutto questo non è servito ad allontanarla dal pensiero della morte. Il 2 dicembre 1938 si reca presso l’Abbazia di Chiaravalle con un tubetto di barbiturici lì nella natura che tanto ha amato si lascia andare. Antonia non ha retto al peso della vita, alla perdita dell’amore, alla mancata realizzazione del suo progetto di vita e , troppo debole per lottare, si è avviata incontro alla morte con la certezza che ” dietro la porta per sempre chiusa (…) sarà – tu lo sai – la pace”. Questo interesse della critica oggi restituisce ad Antonia il giusto riconoscimento alla sua opera. Antonia a distanza di 80 anni dalla morte continua a parlarci attraverso la sua opera finalmente ripulita da tutte quelle interferenze esterne che ce ne davano un ritratto falsato e artefatto restituendoci così tutta la portata del suo dramma di donna e di poetessa.

Chiara Scidone
Tanti auguri, Aldo Palazzeschi! Il 2 febbraio del 1885 nasceva un grande poeta e scrittore a Firenze. In questa poesia si può subito notare la semplicità delle parole, perché il poeta stesso rifiutava la definizione di poesia scolastica e ne faceva ironia, infatti nelle sue opere ha sempre reso tutto più facile e giocoso. In questa poesia in particolare lo si può notare dal fatto che la fontana in questione sembri un malato col raffreddore tramite la ripetizione di onomatopee. Palazzeschi è sicuramente uno dei miei scrittori preferiti del 900, adoro il modo in cui nelle sue opere, ha sempre cercato varie sfaccettature del suo io, costruendo tantissimi personaggi a proiezione di sé, a partire da Valentino Core di “riflessi” fino alle “Sorelle Materassi”. Unico e inimitabile.

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