Firenze, 31 gennaio 2021 – Vince, per il mese di gennaio 2021, Dino Campana con un’ampia messe di commenti dedicati al post E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. Dino Campana. Vincitore assoluto, che ha potuto contare su un componimento-capolavoro suggestivo e meritatamente notissimo. Due ex aequo, invece, agli altri due gradini del podio, e tutti e due con la presenza di autori italiani, fra primo e secondo Novecento. La medaglia d’argento è condivisa tra Carlo Betocchi e Giorgio Caproni, rispettivamente con Auguri a Carlo BetocchiL’amore d’inverno. Giorgio Caproni, quella di bronzo tra Cristina Campo e Giovanni Pascoli, la prima con La clessidra capovolta. Cristina Campo, il secondo con La voce della vita. Giovanni Pascoli.  Ne deriva una cinquina di validissimi autori, con cinque testi di indiscusso rilievo che la vostra sensibilità e la vostra intelligenza di lettori affezionati non hanno esitato anche stavolta a rilevare.

Tra i commenti sulla Chimera del poeta dei Canti orfici segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Antonella Bottari e Antonietta Puri. Rispettivamente: “Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno.Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossessamento corporeo e mentale.”; “‘Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre ‘La Chimera’ si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: Non so se…’. Si parte da qui per il viaggio poetico di oggi. Il ‘se’ ipotetico che segue il ‘Non so’ d’apertura è importante perché rafforzativo del mistero e dell’inafferrabilità che pervade l’intero componimento. Lo stato di ipotesi è confermato dagli aggettivi che, ripetuti più volte nel testo, si riferiscono a ricordi lontani il cui riverbero è quasi del tutto svanito. L’unica possibilità è ricordare per brevi apparizioni che costituiscono i singoli frammenti di un immenso mosaico irricomponibile in modo compatto e razionale. Grande importanza ha il dinamismo del verso col quale l’autore tenta di catturare l’inafferrabile, l’insondabile. Così, per analoghi paradigmi, il tratto pittorico di Tintoretto, nell’accentuato dinamismo delle sue opere, in continua ricerca dell’ inafferrabile. Il secondo aspetto, la cui traccia evidente è sempre riconoscibile nella dissertazione del professor Marchi, riguarda la vanità della poesia. Manca a Campana la riconciliazione armonica della parte con il tutto, dell’io lirico con il mondo, che si traduce in un ripiegamento forzato su se stesso che il poeta è costretto a compiere tramite la veemenza espressiva. Tale furore espressionistico è rintracciabile anche nei dipinti di Van Gogh, ed è rilevabile in alcune caratteristiche tipiche della sua arte: la deformazione e la distorsione delle figure, i colori stridenti, i contorni spezzati e le pennellate serrate sintomatiche dell’impeto compositivo scaturito dal doloroso disagio esistenziale. ‘Chacun sa chimere’ diceva Baudelaire. E io, oggi, l’ho riconosciuta. Grazie Professore.”; “Tutta la produzione lirica di Campana nei ‘Canti Orfici’ scaturisce dalla convulsa inclinazione del poeta a dare voce all’inesprimibile: di qui la sua necessità di immergersi nell’essenza dell’emozione per rintracciarvi il primigenio, indefinito fluire della realtà, disfatto ogni legame con l’intelletto e con la storia e soppresso il concetto di tempo in un confuso contatto con le cose. E’ proprio nelle composizioni visionarie e arditamente simboliche dei Canti, espressione tra le più autentiche del decadentismo italiano, che Campana realizza questo sforzo, il cui orfismo si risolve in un’allucinante trasposizione della realtà. ‘La Chimera’ è considerata una delle liriche dalla maggiore difficoltà di lettura di tutto il Novecento; il poeta stesso non sa spiegare l’origine della fascinazione per questa figura che è un misto di elemento umano, di suggestione letteraria e figurativa, di mito e di arcana archetipicità: certo è che quest’immagine sognata, vagheggiata e temuta, immaginata, velatamente suggerita, di una femminilità indefinibile e inesprimibile, affascinante e terrifica, è di derivazione leonardesca, di per sé già ambigua per l’uso che il sommo artista fa dello sfumato, liberando figure e oggetti dal segno del contorno, per immergerli e farli affiorare, in un alterno trapassare di luci e di ombre, in un abbraccio cosmico misterioso e vibrante che dà vita a un linguaggio di altissimo valore formale e poetico. Il poeta vede in una suggestiva figura leonardesca cui fanno da quinte le irreali rocce che ben conosciamo, una misteriosa maschera di voluttà e dolore sentimenti che si interscambiano e si trasfigurano continuamente, mostrando e nascondendo le diverse, contrastanti parti di cui è formato il mostro mitologico, e l’enigma di questa figura lo tiene sveglio nelle notti insonni e, non riuscendo a penetrare l’essenza della misteriosa figura, ne cerca appassionatamente una manifestazione concreta, invocandola, chiamandola Chimera, forse per la doppia accezione del suo essere “monstrum”: prodigio, cosa meravigliosa, oppure creatura diversa, orrenda, ma anche in senso figurato di ‘possibilità assurda’, ‘sogno vano’, ‘utopia’. Ma io credo che oltre ogni possibile significato, giovi godere della bellezza di questi versi, confidando nella nostra capacità di intuire, anche per brevi attimi, cosa si celi dietro ai lampi di luce con i quali Dino Campana squarcia la propria notte, per illuminare la nostra”.

Buona rilettura della poesia vincitrice e buona lettura di tutti vostri commenti. Ai poeti e ai testi del mese prossimo, a partire da domani!

Marco Marchi

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. Dino Campana

VEDI I VIDEO “La Chimera” letta da Carmelo Bene“La Chimera” secondo Aion Teater , Scene da “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (2002) , “Poesia facile” , “In un momento” letta da Carmelo Bene

Firenze, 9 gennaio 2021 – Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: “Non so se…”. Ma è proprio da questa incapacità dichiarata e subito chiamata in campo, da questa condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore fattasi incipit sonoro, primo accordo della partitura lirica, che la modernità della sua poesia si emancipa.

L’invocazione di Campana per dirsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto ad ogni passo a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.

La poesia dei Canti orfici è poesia culturalizzata, è sempre bene precisarlo, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: “lineamenti fissi”, potremmo dire, “stabili possessi” citando un celebre “osso breve” che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.

Quel Montale cantore della negazione della parola che «squadri da ogni lato» un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova in un avverbio dell’incertezza – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’attacco di una altro suo “osso breve” come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e musicale dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.

E’ un regime dell’incertezza, del probabilismo che niente risparmia, che tutto investe; e la veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’”altrove” e della “seconda nascita” di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia dei Canti orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia “notturno”, espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati di afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera.

Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le stupende pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra, riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza a forme e prospettive del moderno: una modernità di inizi secolo in sintonia con le parallele, sbaraglianti scoperte della scienza culminate nell’opera di Sigmund Freud.

Marco Marchi

La Chimera

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

(da Canti orfici, 1914)

I VOSTRI COMMENTI

Antonella Bottari
“Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: ‘Non so se…’.” Si parte da qui per il viaggio poetico di oggi. Il “se” ipotetico che segue il “Non so” d’apertura è importante perché rafforzativo del mistero e dell’inafferrabilità che pervade l’intero componimento. Lo stato di ipotesi è confermato dagli aggettivi che, ripetuti più volte nel testo, si riferiscono a ricordi lontani il cui riverbero è quasi del tutto svanito. L’unica possibilità è ricordare per brevi apparizioni che costituiscono i singoli frammenti di un immenso mosaico irricomponibile in modo compatto e razionale. Grande importanza ha il dinamismo del verso col quale l’autore tenta di catturare l’inafferrabile, l’insondabile. Così, per analoghi paradigmi, il tratto pittorico di Tintoretto, nell’accentuato dinamismo delle sue opere, in continua ricerca dell’ inafferrabile. Il secondo aspetto, la cui traccia evidente è sempre riconoscibile nella dissertazione del professor Marchi, riguarda la vanità della poesia. Manca a Campana la riconciliazione armonica della parte con il tutto, dell’io lirico con il mondo, che si traduce in un ripiegamento forzato su se stesso che il poeta è costretto a compiere tramite la veemenza espressiva. Tale furore espressionistico è rintracciabile anche nei dipinti di Van Gogh, ed è rilevabile in alcune caratteristiche tipiche della sua arte: la deformazione e la distorsione delle figure, i colori stridenti, i contorni spezzati e le pennellate serrate sintomatiche dell’impeto compositivo scaturito dal doloroso disagio esistenziale. “Chacun sa chimere” diceva Baudelaire. E io, oggi, l’ho riconosciuta. Grazie Professore.

Maria Grazia Ferraris
La Chimera è la più antica delle composizioni che apre la sezione dei Notturni dei Canti orfici, ci dice l’autore stesso. L’ introduzione, di M. Marchi, necessaria alla lettura consapevole del testo, per nulla facile, della poesia orfica di D. Campana, è di per sé esaustiva ed illuminante. Ripercorre le varie interpretazioni che la critica letteraria, decisamente imbarazzata e discorde, ne ha dato nel tempo, ne sottolinea l’aspetto più vistoso, la visionarietà, traboccante, l’insicurezza moderna ed esibita, inappagata, ma anche la sua natura culturalizzata, tra ermetismo ed espressionismo, mito lontano e simbolo, magma indistinto da squarciare nella notte. Un tentativo nuovo quello di Campana, di suscitare un confronto suggestivo, aperto, tra parola e immaginazione in un continuo variare espositivo, dettato dalla volontà ritmica o espressiva. È un inno alla femminilità, l’eterno femminino, inquietante , dalle multiformi apparenze e alla poesia, che sceglie qui un linguaggio fortemente analogico e che rimanda all’idea costante della illusorietà.

Duccio Mugnai
La carica di visionarietà trasfigurante denota la poesia di Campana come un “unicum”. Un’esperienza poetico-letteraria, la quale, anche se presenta caratteri di iperculturalizzazione, ha una forma di incisività sulla pagina scritta e a contatto con la lettura, che solo la grande poesia contemporanea riesce ad avere. Bellissima è l’intuizione evocativa dell’arte di Campana, elaborata da Montale, giustamente citata e celebrata da Marchi, come una «poesia in fuga», dove ricorrente e ossessivo è il tema del viaggio. La sua valenza è soprattutto esistenziale, è tenebra, esperienza in solitudine, dove l’amore è lacerazione, mistero, folle e geniale visionarietà.

Antonietta Puri
Tutta la produzione lirica di Campana nei “Canti Orfici” scaturisce dalla convulsa inclinazione del poeta a dare voce all’inesprimibile: di qui la sua necessità di immergersi nell’essenza dell’ emozione per rintracciarvi il primigenio, indefinito fluire della realtà, disfatto ogni legame con l’intelletto e con la storia e soppresso il concetto di tempo in un confuso contatto con le cose. E’ proprio nelle composizioni visionarie e arditamente simboliche dei Canti, espressione tra le più autentiche del decadentismo italiano, che Campana realizza questo sforzo, il cui orfismo si risolve in un’allucinante trasposizione della realtà. “La Chimera” è considerata una delle liriche dalla maggiore difficoltà di lettura di tutto il Novecento; il poeta stesso non sa spiegare l’origine della fascinazione per questa figura che è un misto di elemento umano, di suggestione letteraria e figurativa, di mito e di arcana archetipicità: certo è che quest’immagine sognata, vagheggiata e temuta, immaginata ,velatamente suggerita, di una femminilità indefinibile e inesprimibile, affascinante e terrifica, è di derivazione leonardesca, di per sé già ambigua per l’uso che il sommo artista fa dello sfumato, liberando figure e oggetti dal segno del contorno, per immergerli e farli affiorare, in un alterno trapassare di luci e di ombre, in un abbraccio cosmico misterioso e vibrante che dà vita a un linguaggio di altissimo valore formale e poetico. Il poeta vede in una suggestiva figura leonardesca cui fanno da quinte le irreali rocce che ben conosciamo, una misteriosa maschera di voluttà e dolore sentimenti che si interscambiano e si trasfigurano continuamente, mostrando e nascondendo le diverse, contrastanti parti di cui è formato il mostro mitologico, e l’enigma di questa figura lo tiene sveglio nelle notti insonni e, non riuscendo a penetrare l’essenza della misteriosa figura, ne cerca appassionatamente una manifestazione concreta, invocandola, chiamandola Chimera, forse per la doppia accezione del suo essere “monstrum”: prodigio, cosa meravigliosa, oppure creatura diversa, orrenda, ma anche in senso figurato di “possibilità assurda”, “sogno vano”, “utopia” . Ma io credo che oltre ogni possibile significato, giovi godere della bellezza di questi versi, confidando nella nostra capacità di intuire, anche per brevi attimi, cosa si celi dietro ai lampi di luce con i quali Dino Campana squarcia la propria notte, per illuminare la nostra.

tristan51
Letta da Carmelo Bene, letta da Vittorio Gassman o letta mentalmente da ciascuno di noi “La Chimera” resta sempre un capolavoro.

Damiano Malabaila
Come ha scritto un instancabile lettore di Campana, i Canti orfici sono “il libro scritto nel mondo, nel circuito della vita planetaria” e ancora: “un ponte, un’offerta di soluzione all’impasse che la poesia moderna e il pensiero moderno hanno dovuto subire irretendosi in se stessi. Questo, di Campana, che sembrava una specie di sogno retrospettivo invece ha, secondo me, una carica anticipatrice”.

Ferruccio Palmucci
“La chimera” nasce da un’ “allucinazione poetica.” In verità non avrei neppure dovuto mettere la frase tra virgolette perché la intendo nel suo reale significato di percezione di immagini e oggetti fuori della realtà. Con una differenza sostanziale, però, che la distingue radicalmente dalle allucinazioni dei pazzi. A differenza di questi ultimi che, sognando, credono di vivere esperienze reali, Campana sogna sapendo di sognare. E’ ciò che accade, del resto, a mio avviso, in tutte le forme artistiche, nelle quali, a diversi livelli a seconda degli stati d’animo, le raffigurazioni prodotte provengono dall’inconscio, filtrate dalla coscienza di quel tanto che basta per renderle meno caotiche e più intelligibili. Il poeta dunque sogna sapendo di sognare. E Campana lo fa in modo così affascinante e fuori da schemi logici che ci rende impossibile spiegare razionalmente ciò che vuole dirci, se non che vuole condurci in un mondo ambivalente e misterioso fatto di “lontananze ignote, di “primavere spente”, verso una “Regina adolescente” e il “suo poema di voluttà e di dolore”; Una “Regina della melodia” per la quale veglia “le stelle vivide nei pelaghi del cielo.” E’ la sua chimera, immagine sognata, senza un volto ben definito, che gli suscita sensazioni di gioia e di dolore, di sangue e di mistero; una figura ignota col “sorriso di un volto notturno”, dai “mitici pallori” e dal “divenir taciturno”; un mistero seducente che lo chiama fuori della realtà verso “l’immobilità dei firmamenti” e “teneri cieli lontane ombre correnti.” Il poeta seguirà quel richiamo fuggendo da se stesso, dal mondo reale per raggiungere il mondo della sua immaginazione poetica dove tutto: immagini, colori, parole, suoni, volti, cielo, terra, passato e presente, si fonde come sulla mirabile tavolozza di un pittore in una sinfonia musicale e cromatica di straordinaria bellezza.

Isola Difederigo
“La poesia del nostro tempo vive di un terribile dilemma: o tutto o nulla. Per avere acceso questo dilemma in modo così folgorante, alle origini della nuova poesia italiana sta Dino Campana”. Chi scrive è un autorevole lettore di Campana, Mario Luzi, poeta pure lui campaniano e dantesco nella sua prima fase ‘notturna’ rimasto poi sempre, sciolte ben presto le riserve orfiche al fuoco della controversia, fedele interprete della grandezza tragica e sublime del poeta di Marradi.

Arianna Capirossi
Le visioni poetiche di Campana sono sempre suggestive e sensuali: dipingono volti diafani, suonano melodie incantatrici, permettono di toccare le ombre e di ascoltare i silenzi. Il “poeta notturno” si bea della contemplazione del vago; la dolcezza (l’aggettivo “dolce” è ripetuto 3 volte) e la voluttà prevalgono, seppur momentaneamente, sul dolore (“dolore”: 2 occorrenze).

Sabina Candela
Chimera: donna o poesia? E’ la spassionata ricerca di entrambe che muove il poeta e che trova compiuta espressione nell’inebriante e misteriosa atmosfera abitata da chimere evanescenti, impalpabili, inafferrabili, abbaglianti, invocate ed evocate nel dispiegarsi di sensazioni visive e sonore che catturano in un crescendo di dolcezza e musicalità.

Giacomo Trinci
Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno.Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossessamento corporeo e mentale.Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.

Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.

Chiara Scidone
Campana, poeta notturno, evoca attraverso un incantesimo musicale la sua misteriosa Chimera che è rappresentazione di un altro grande mistero: l’esistenza umana.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Viaggio disperato verso un possibile significato della vita e ricerca spasmodica di una parola poetica assoluta: i versi notturni di Campana – metafora di un’esistenza brancolante alla ricerca di un senso che è pura Chimera – ci avvolgono con la loro estenuante musicalità, tra iterazioni e assonanze, in un’atemporalità priva di riferimenti spaziali, in una circolarità labirintica senza via d’uscita, che non sia momentanea o illusoria come il sorriso ossimorico della figura mitologica evocata, come i meandri di una psiche alterata. La copiosità lessicale della poesia dannunziana qui non afferma, ma nega certezze e la poesia di Ermione, il canto dell’estate, si fa canto delle tenebre, poesia di una Chimera.

Lorenzo Dini
Nella “Chimera” il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Giacomo Trinci
Capita di rado di leggere sulla poesia di Dino Campana parole così dense, precise, argomentate con perizia di senso storico e linguistico. E’ proprio su questa comprensione che mi piace insistere in queste altre mie poche righe, come per sottolineare il fattore necessario che, per autori così fuoricampo, fuori dal gioco,occorre saper essere complici e attenti. Occorre, cioè, essere anche un po’ poeti, in un senso molto largo della parola. Farsi un po’ tenebra, per illuminare il buio.

Duccio Mugnai
Come è risaputo, tratto caratteristico del genio è “sapere” prima di aver conosciuto. Bisogna chiedersi quanto questo fatto coincida con l’unicità di Campana. Si è parlato spesso di stile ed immaginario “rimbaudiano”, genuinamente scevro da dominazioni e parvenze di filtri culturali troppo evidenti. Eppure è “Chimera” come incubo di sembianze femminili, fascinose, cangianti e proteiformi; gia presente nel gioco edonistico, estetizzante e superomistico dannunziano, potrebbe preludere anche la terribilità esistenziale pavesiana di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. E’ sublimità ineffabile e orfica dei versi di Campana, senza dimenticare che il senso più autentico e profondo del poetare è la fuggevolezza e l’indefinibilità.

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