Firenze, 31 gennaio 2020 – Vince alla grande, per il mese di gennaio 2020, Giorgio Caproni con un’ampia messe di commenti dedicati al post Buon compleanno a Giorgio Caproni che qui si ripubblica. Vincitore assoluto il poeta del Conte di Kevenüller (dalla raccolta del 1985 è tratta la bellissima poesia che ha sostanziato il post: Il mare come materiale), mentre per il secondo e il terzo gradino del podio di inizio d’anno (quest’ultimo con un ex aequo) si registrano tre interessantissimi piazzamenti: quello all’argento di Carlo Betocchi con Auguri a Carlo Betocchi  e quelli al bronzo di Dino Campana e Cristina Campo con La tenebra e il canto. Dino Campana e La clessidra capovolta. Cristina Campo). Ne deriva una bella, significativa rosa di vincitori del Novecento italiano, con quattro testi di indiscusso valore che la vostra sensibilità e la vostra intelligenza di lettori affezionati e bravissimi non hanno mancato anche stavolta di rilevare.

Non a caso tra i vostri commenti c’è soltanto, come del resto il più delle volte càpita, l’imbarazzo della scelta nel volerne segnalare alcuni. Indichiamo sintomaticamente quelli di Antonietta Puri, tristan51 e Lorenzo Dini. Nell’ordine: “Indipendentemente dalla bellezza intrinseca e formale che è godimento puro, credo che non si possa prescindere dal fatto che questa vibrante poesia sia dedicata allo scultore contemporaneo Mario Ceroli, che ha fatto della propria vita di artista la sperimentazione del ‘materiale’. Un tempo definito lo scultore del legno, egli stesso rifiuta l’assolutezza di tale definizione, ‘…perché ho fatto diverse esperienze con i materiali: ho usato il legno, ho fatto ceramiche, ho usato il marmo, ho realizzato cose con il ghiaccio, con l’acqua, ho fatto cose di carta, cose di stoffa. All’inizio ho scelto il legno perché ero molto povero e il legno mi dava la possibilità di realizzare un’idea immediatamente senza l’intervento di collaboratori, che potrebbero essere un fabbro o una tipografia.’ Ora se con il termine ‘scultura’ si indica qualsiasi oggetto tridimensionale come espressione di creazione artistica, solo ad un poeta del calibro di Giorgio Caproni può venire in mente di usare il mare quale materiale da scolpire…, non tanto perché il mare è fatto d’acqua, visto che Ceroli l’ha già usata, ma perché il mare è l’immagine di ciò che cambia continuamente e nessuna sua forma si lascia afferrare e fissare nella tridimensionalità. Che bella invenzione, la poesia di Caproni e che bella ‘invenzione’ il mare… che tutto significa: la bellezza, la musica, i moti dell’animo umano, il pericolo, le tragedie, le euforie, le gioie…e perfino il volto di quel Dio che si nasconde e non lascia traccia di sé e, soprattutto, quel senso di smarrimento metafisico che ci invade e ci invasa – per cui ‘Non sai mai dove sei / Non sei mai dove sai’ – quando guardiamo il mare e quando leggiamo le meravigliose poesie di Caproni!”; “Fin dal suo libro del debutto, ‘Come un’allegoria’, Giorgio Caproni imposta — con il ricorso alle rime, alle assonanze, alle pause, alla disponibilità dei significanti — un lavoro vivo che trarrà dalla vita pesi di sgomento, per il momento indizi, incrinature di un idillio solo in apparenza inoffensivo. Ma tutto avviene e avverrà per traslazione. Creature irriconoscenti, i versi si dimenticheranno del poeta, si serviranno di lui, delle risorse del suo sentire e del suo studio meticoloso e testardo; gli insegneranno sempre di più che con loro si dice per vie traverse, per percorsi microscopici, per esplosioni ‘au ralenti’ imprevedibili; vorranno essere invocati, corteggiati amorevolmente, con assoluta dedizione, o inseguiti con fierezza, come in una battuta di caccia. Ma è proprio così che quei versi esigenti ricompenseranno il poeta, permettendogli di scrivere testi superlativi come questo”; “La meravigliosa plasticità del mare caproniano ricorda gli altrettanti limpidi versi di Virgilio: dove sbalzato sullo scudo di Enea è il trepido mare, in cui le singole scaglie di bronzo delle onde riflettono il luccichio dei galeoni sovrastanti. Un gioco di specchi, che sfrutta il materiale bronzeo dello scudo e la plasticità del mare, con preziosa e cromatica raffinatezza. Il mare è tutto rigonfio, quasi in ebollizione, dove le code dei delfini dorati fendono i marosi, in un moto che è un continuum con quello delle onde. Delfini, che Caproni stesso mette in apertura dei “testi marittimi e di circostanza” e che preparano il lettore, in un crescendo di intensità, al mare in fermento di questa poesia. Attenzione tutta cromatica e plastica, quella che Caproni riserva al mare. Del resto, ci aveva già abituato nei versi dell”Ascensore’, con icastica forza espressiva: ‘Ma là sentirò alitare / la luce nera del mare / fra le mie ciglia’. Dove queste parole, in rima piana e semplice, interrompono la fraseologia franta, dinamica, tutta dissonanza improvvisa. Così il filo di continuità dell’opera di Caproni, che sa entrare e passare con naturalezza ed eleganza da versi in origine musicali, nei più incisivi del quasi parlato, della sentenza, della maturità”.

Ma veramente bello e sicuramente da segnalare, nella sua sinteticità, anche il commento di Giacomo Trinci: “La meravigliosa secchezza della tarda stagione poetica di Caproni è la continuazione di quella musica acerba e squisita dei primi versi giovanili, della magrezza colta e casta della fase centrale del ‘Seme del piangere’. Il filo sottile e tenace insieme che lega le stagioni poetiche di Caproni è dato proprio da questa capacità inesauribile di canto e musica che si piega nelle diverse modulazioni esistenziali: matericità e metrica magrezza si fondono nel miracolo di un dire di trovadorica precisione, di puntuta ariosità”.

Buon Giorgio Caproni a tutti! E a domani con nuovi testi e nuovi poeti.

Marco Marchi

Buon compleanno a Giorgio Caproni

VEDI I VIDEO “Il mare come materiale” , Ritratto di Giorgio Caproni , Giorgio Caproni su “Il passaggio di Enea”, con lettura d’autore di “Marzo” , Dai “Versi livornesi”

Firenze, 7 gennaio 2020 – Ricordando che il 7 gennaio 1912 nasceva a Livorno Giorgio Caproni.

Fu bello molto tempo fa parlare di Giorgio Caproni, «chiacchierare» – a Firenze, nella città dove il poeta incontrava Luzi e Betocchi – di un suo libro intitolato Era così bello parlare, in cui erano stati raccolti i testi di quattro sue conversazioni radiofoniche risalenti al 1988.

Un pomeriggio alla Sala degli Specchi di Palazzo Vivarelli Colonna, con Luigi Surdich, Franco Contorbia e un pubblico particolarmente attento, ed è già ricordo, con l’ingrediente oltremodo attinente al discorso della poesia, della memoria: della sua capacità, tramite le parole della poesia e quelle attorno ad essa gravitanti, di rendere bello e vivo ciò che è stato, di conservarne e potenziarne gli attributi di realtà su scenari irripetibili, ormai deserti e sostituiti da un altro presente, con le sue voci e i suoi significati, aleatorio e instabile come un paesaggio visto dal treno e tuttavia di nuovo assaporabile, su cui riflettere, magari in compagnia di un altro grande poeta che con Caproni ha molto a che fare: Leopardi.

Sì, fu bello: quasi un dono protratto, prolungabile in assenza, in cui la nostalgia si annulla. Grazie al libro che un capronista di vaglia come Surdich aveva allestito per le edizioni genovesi del «Melangolo», l’affabilità del poetare di Caproni era tornata a farsi intrattenimento, conversazione a margine, ma era rimasta discorso intrinseco. Le parole erano in molti casi le stesse, la sintassi, il fraseggiare e il suono complessivo, le impuntature precisanti e gli incisi, addirittura le sospensioni e i silenzi restituiti sul filo di un’oralità trascritta, erano gli stessi: fino a trasformarsi in quintessenza fisionomica, in tratti di riconoscimento.

Erano gli stessi, d’altra parte, i significati inseguiti, cacciati da un’ispirazione implacabile, scritti davvero per forza, per rimediare alla povertà dell’essere al mondo, per consentire con meraviglia, di quel mondo, la sopravvivenza o la stupita riabilitazione di un attimo. Un attimo di schiarita oltre il tempo e i confini dell’io, e parole destinate, in caso di riuscita, a coincidere con la vita, a doverne costituire in blocco la testimonianza, vivida e necessaria nella sua essenzialità chiamata al dunque, soggetta agli ultimi accertamenti: come i tesori nel fagotto di Annina, la madre di Giorgio nei Versi livornesi, anche lei in viaggio, bloccata tra i fumi di un metafisico bar di stazione, confusa, piangente, senza parole, ma nell’intimo – forse aiutata da un semplice bigliettino di raccomandazioni che come altre volte ha lasciato sul tavolo di cucina assentandosi da casa, forse soccorsa dalla poesia di un figlio che (la poesia meglio di Freud sa dirlo) è il suo fidanzato e la resuscita – non in balia del nulla.

Scriveva Pasolini, un altro poeta in viaggio buio e iridescente, il poeta della «disperata vitalità» faccia a faccia con il poeta della «disperazione calma»: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa». Ed è davvero così. La figura e l’opera di Caproni valgono a non farci perdere la vita: anzi, sono qui a tal punto da farci dire, sottraendoci agli indugi dei verbi al passato e alle angustie desideranti che inevitabilmente ogni bel ricordo porta con sé, che è ancora bello stare con te, Caproni, è così bello sentirti parlare.

Marco Marchi

Il mare come materiale

                                     Allo scultore Mario Ceroli

Scolpire il mare…

Le sue musiche…

                           Lunghe,
le mobili sue cordigliere
crestate di neve…

                     Scolpire
– bluastre – le schegge
delle sue ire…

                    I frantumi
– contro murate o scogliere –
delle sue euforie…

Filarne il vetro in làmine
semiviperine…

                     In taglienti
nastri d’alghe…
                     Fissarne
– sotto le trasparenti
batterie del cielo – le bianche
catastrofi…

                Lignificare
le esterrefatte allegrie
di chi vi si tuffa…
                             Scolpire
il mare fino a farne il volto
del dileguante…

                         Dire
(in calmerìa o in fortunale)
l’indicibile usando
il mare come materiale…

    Il mare come costruzione…

    Il mare come invenzione…

Giorgio Caproni

(da Il conte di Kevenüller, 1986)

I VOSTRI COMMENTI

Maria Grazia Ferraris
L’esordio ci immette nella geografia e nei suoni dei non-luoghi, non-colori, inusuali parole, di Caproni: il mare, la mobilità e la complessità della musica-mentale-: quella della decostruzione. Il mare come il volto incerto della realtà dileguante e sempre ambigua. Paesaggio costruito? Inventato? La verità – è certo- non si costruisce sulle certezze umane banalizzanti o inquietanti.
La materia ha dentro di sé la scintilla di una sconosciuta intelligenza creatrice, e la natura stessa trabocca di mistero, manifestazioni che travalicano ogni tentativo di semplificazione.
Mare. Neve di creste blu, irato, delle sue furie e delle sue euforie che si confondono. Una natura stravolta: alghe come nastri taglienti, scogli scolpiti come legni disseccati e presenze lignificate.
I frantumi come risposta non solo materiale, fisica, a catastrofi. Versificazione per astrazione, risparmi, sottrazioni- grande: “Non/lo sopporto più il rumore/della storia… Vento/ afono…/Glissando… Sparire/ come il giorno che muore/ dietro i vetri…/Il mare…/Il mare in luogo della storia… (Albaro)

tristan51
Fin dal suo libro del debutto, “Come un’allegoria”, Giorgio Caproni imposta — con il ricorso alle rime, alle assonanze, alle pause, alla disponibilità dei significanti — un lavoro vivo che trarrà dalla vita pesi di sgomento, per il momento indizi, incrinature di un idillio solo in apparenza inoffensivo. Ma tutto avviene e avverrà per traslazione. Creature irriconoscenti, i versi si dimenticheranno del poeta, si serviranno di lui, delle risorse del suo sentire e del suo studio meticoloso e testardo; gli insegneranno sempre di più che con loro si dice per vie traverse, per percorsi microscopici, per esplosioni “au ralenti” imprevedibili; vorranno essere invocati, corteggiati amorevolmente, con assoluta dedizione, o inseguiti con fierezza, come in una battuta di caccia. Ma è proprio così che quei versi esigenti ricompenseranno il poeta, permettendogli di scrivere testi superlativi come questo.

Damiano Malabaila
Auguri a Caproni, scultore finissimo di immagini e parole!

Antonietta Puri
Indipendentemente dalla bellezza intrinseca e formale che è godimento puro, credo che non si possa prescindere dal fatto che questa vibrante poesia sia dedicata allo scultore contemporaneo Mario Ceroli, che ha fatto della propria vita di artista la sperimentazione del “materiale”. Un tempo definito lo scultore del legno, egli stesso rifiuta l’assolutezza di tale
definizione, “…perché ho fatto diverse esperienze con i materiali: ho usato il legno, ho fatto ceramiche, ho usato il marmo, ho realizzato cose con il ghiaccio, con l’acqua, ho fatto cose di carta, cose di stoffa. All’inizio ho scelto il legno perché ero molto povero e il legno mi dava la possibilità di realizzare un’idea immediatamente senza l’intervento di collaboratori, che potrebbero essere un fabbro o una tipografia.” Ora se con il termine “scultura” si indica qualsiasi oggetto tridimensionale come espressione di creazione artistica, solo ad un poeta del calibro di Giorgio Caproni può venire in mente di usare il mare quale materiale da scolpire…, non tanto perché il mare è fatto d’acqua, visto che Ceroli l’ha già usata, ma perché il mare è l’immagine di ciò che cambia continuamente e nessuna sua forma si lascia afferrare e fissare nella tridimensionalità. Che bella invenzione, la poesia di Caproni e che bella “invenzione” il mare…che tutto significa: la
bellezza, la musica, i moti dell’animo umano, il pericolo, le tragedie, le euforie, le gioie…e perfino il volto di quel Dio che si nasconde e
non lascia traccia di sé e, soprattutto, quel senso di smarrimento metafisico che ci invade e ci invasa – per cui “Non sai mai dove sei/ Non sei mai dove sai” – quando guardiamo il mare e quando leggiamo le meravigliose poesie di Caproni!

Paolo Parrini
Caproni fin dai primi scritti si caratterizzò come “poeta minatore” come egli stesso amava definirsi , capace di estrarre gemme lucenti dagli anfratti più cupi dell’anima. E poi la sua levità, la sua leggerezza capace di dire il dolore e la disperazione ma di dirli in termini non drammatici ma in una sorta di “straziata allegria”. Infine “l’economia delle parole” l’uso della parola “netta” , fine e popolare, verde ed elementare. Disse Caproni a proposito del suo far Poesia …”Il rumore delle parole della loro sovrabbondanza, mi ha stancato presto….”l’ultimo Caproni economizza ancor più sulle parole, usa molto i trattini e i puntini, aumenta le spaziature strofiche, ed il testo assomiglia ad una partitura musicale. “Scolpire il mare… Le sue musiche… Scolpire – bluastre – le schegge delle sue ire…” versi brevi, interpunzioni, e la luce che giunge sempre alla fine la gemma che Caproni sempre regala …..” Dire l’indicibile … Usando il mare come materiale…” Una poesia che si conclude con la speranza di poter dire , di riuscire a sconfiggere e superare la distanza tra la parola e la vita.

Arianna Capirossi
Intrigante la musicalità di questo testo, fin dal titolo paronomastico: “Il mare come materiale”. La poesia di Caproni è più efficace di una cartolina, catturando ogni singola espressione, ogni singolo movimento del mare. Mare che non è solo mare: è la natura tutta intera, è pietra (“cordigliera”, “scogliera”), è ghiaccio (“neve”), è materiale malleabile come il vetro (“Filarne il vetro”) o il legno (“lignificare”), e, infine, è uomo (“il volto / del dileguante”). Caproni riesce a descrivere il corpo universale del mare, brulicante di forme di vita (anzi, di forme tout court), come uno scultore del linguaggio, perfettamente consapevole dell’essenza di ogni parola, sia per significante che per significato. Il suono e la materia si fondono in una poesia che, in quanto a forza espressiva, non ha nulla da invidiare al prodotto di un’altra arte, la scultura, qui emulata.

framo
… Eh sì… è proprio un bel mare in 3D scevro da ogni artificio quello che Caproni tende a scolpire; lo stesso che altrove brucia le maschere col “fuoco del sale” e che ci consegna l’essenza di una poesia densa, profonda – dunque ispirata e vera – la sola “che senza maschere”, respingendo retorica, enfasi o banalizzazioni, in segreto, saprà resistere alla forza erosiva e alle intemperie del tempo, per la sua capacità di restituire al vivo ogni umana “arte di esistere”.

Duccio Mugnai
La frammentazione sintattica offre dissonanze sonore, che vogliono ricreare l’ambiente marino. Non solo voci o suoni, ma anche i colori e gli odori salini del mondo primigenio, che solo può ricrearci e infondere vitalità. Un linguaggio per “scolpire” una possibilità comunicativa antichissima e sempre nuova. Ci porta la storia e il lavoro, l’avventura e gli amori, ci può ricondurre anche al dialetto, lingua viva, che si nutre di mare, non prodotto di squallida omologazione. Solo il poeta sa regalarci questa emotività consapevole che il mare è “materiale”, “costruzione”, “invenzione”. Anche De André, in “Creuza de ma”, aveva percepito questo esistere.

Ilaria
Caproni, come un artigiano, di antica memoria, scolpisce le onde, le increspa, le plasma… costruisce la materia e ne cadono le schegge, le mani si muovono, come in un rituale. Come le parole plasmano la poesia creando sensazioni, l’uomo che lavora crea capolavori, con l’unica arte del suo operato. Caproni sempre meraviglioso…

Giacomo Trinci
La meravigliosa secchezza della tarda stagione poetica di Caproni è la continuazione di quella musica acerba e squisita dei primi versi giovanili, della magrezza colta e casta della fase centrale del “Seme del piangere”. Il filo sottile e tenace insieme che lega le stagioni poetiche di Caproni è dato proprio da questa capacità inesauribile di canto e musica che si piega nelle diverse modulazioni esistenziali: matericità e metrica magrezza si fondono nel miracolo di un dire di trovadorica precisione, di puntuta ariosità.

Chiara
“Scolpire il mare fino a farne il volto” quanto mi piace questa frase, rende proprio l’idea. Caproni scolpisce il mare, la poesia, come una scultura che prende forma. E poi c’è questa metrica spezzata a rappresentanza della personalità del poeta. Meraviglioso. Tanti auguri a Caproni!

Lorenzo Dini
La meravigliosa plasticità del mare caproniano ricorda gli altrettanti limpidi versi di Viriglio: dove sbalzato sullo scudo di Enea è il trepido mare, in cui le singole scaglie di bronzo delle onde riflettono il luccichio dei galeoni sovrastanti. Un gioco di specchi, che sfrutta il materiale bronzeo dello scudo e la plasticità del mare, con preziosa e cromatica raffinatezza. Il mare è tutto rigonfio, quasi in ebollizione, dove le code dei delfini dorati fendono i marosi, in un moto che è un continuum con quello delle onde. Delfini, che Caproni stesso mette in apertura dei “testi marittimi e di circostanza” e che preparano il lettore, in un crescendo di intensità, al mare in fermento di questa poesia. Attenzione tutta cromatica e plastica, quella che Caproni riserva al mare. Del resto, ci aveva già abituato nei versi di “Ascensore”, con icastica forza espressiva: “Ma là sentirò alitare / la luce nera del mare / fra le mie ciglia (…)”. Dove queste parole, in rima piana e semplice, interrompono la fraseologia franta, dinamica, tutta dissonanza improvvisa. Così il filo di continuità dell’opera di Caproni, che sa entrare e passare con naturalezza ed eleganza da versi in origine musicali, nei più incisivi del quasi parlato, della sentenza, della maturità.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Frammenti di versi, spruzzi di parole, sonorità evocate e vitree trasparenze, il mare bluastro in tempesta: scolpire con impossibili parole l’immensità del suo fluire, tra scoppi d’ira e bonacce, è scolpire con impossibili parole l’immensità dell’esistenza, tra fortunali e tempeste. Giorgio Caproni attraverso il mare ha scolpito la vita.

Tirreno
A mio avviso uno dei grandi della poesia italiana del Novecento. Sincero e struggente nella prima parte del suo scrivere, direi fino al “Seme del piangere£ del 1959. Più criptico dopo, ma non mai meno ispirato. Interessante anche l’impegno ecologico, che enunciato in un periodo assai precedente dalla odierna sensibilizzazione assume quasi toni profetici. Eppure parlò sempre a voce sommessa.

Marco Capecchi
Scolpire il mare in questo paradosso si esemplifica l’opera poetica di uno dei maggiori poeti del secondo Novecento.

Rosalba de Filippis
“Scolpire ” “Lignificare” “Fissarne” ancora “Scolpire” , infine:”dire” il mare. Il materiale forse per eccellenza per Caproni in quanto di una maestosita’ e di una vitalita’sfuggenti. Dire e scolpire il mare : una grande sfida. La’dove la parola per Caproni tende a fissare, a “dissolvere l’oggetto” , la stessa consistenza materica delle cose. La scrittura aforistica di “Res amissa”, sara’ infatti ‘il punto di approdo di una riflessione sul potere erosivo della parola; riflessione che fa di Caproni uno dei piu’importanti poeti del Novecento.

Matteo Mazzone
Una voce poetica specchiante ora la spontaneità e l’immediatezza, ora anche la fragilità e la delicatezza di un vissuto doloroso. Una voce così lontana da salotti d’intellettuali, da pomposità magniloquenti, se non viva poesia che si rende consapevole emozione di una più intima lacerazione dolorosa, in cui essa stessa si trova a giacere e titanicamente ad emergere come guizzante alternativa alla morte dei sensi e dei sentimenti. È il poeta giusto per una lettura serale: semplice, emozionante pastore e registratore della condizione umana e delle sue più urgenti problematiche.

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