1 marzo 2019 – Vince Aldo Palazzeschi con una poesia tratta dal suo secondo libro di versi, Poemi, ricca di suggestione e non certo allineabile con la sua produzione più nota e caratterizzante (e allora imminente) tutta giocata oppositivamente all’insegna del comico (Palazzeschi e lo sconosciuto, che qui si ripubblica con i vostri numerosi e sempre interessanti commenti). Un secondo posto di prestigio va ad un post ungarettiano che anche in questo caso non propone dell’autore un testo canonico come, per esempio, Fratelli, Sono una creatura o I fiumi, ma un componimento tardo accostabile semmai, per ispirazione e certificabili modalità espressive, alla più antica La madre del Sentimento del tempo (Per sempre. Giuseppe Ungaretti). Bronzo meritatissimo, infine, in rappresentanza della poesia internazionale, per la grande poetessa americana Sylvia Plath con una sua celebre lirica tratta da Ariel, Lady Lazarus, di cui lei stessa ci ha lasciato una splendida lettura (Anniversario Sylvia Plath). Anche le letture dei poeti, quanto rivelano, quanto aiutano a capire…

Tra i vostri commenti eccone come sempre alcuni che abbiamo voluto scegliere e segnalare: quelli davvero belli, questo mese, di Matteo Mazzone, Isola Difederigo e Antonella Bottari. Rispettivamente: “La scrittura come importantissimo documento, come raccolta di fragmenta impoetiche, disusate, anticonvenzionali. Essa, dunque, si fa testimonianza di quel lusus-ludus che martellerà come un leitmotiv inceppato tutte le opere romanzesche e poetiche, per presentarci un Palazzeschi sempre pronto allo schizzo, al guizzo, al buffo, al lazzo e parallelamente ad un bilancio esistenziale che, amaramente, cede lentamente il passo alla rassegnazione di una vita che sta per finire. Se Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento, se Pasolini è il più grande elegiaco in prosa ed in versi del secondo Novecento, se Zanzotto è il più grande poeta del secondo Novecento, Palazzeschi-Giurlani copre tutto il Novecento come migliore interprete delle sensibilità artistico-stilistiche italiane (almeno le prime), fino ad una personalizzazione propria che fa del gioco, del divertissement un’antifrastica chiave di lettura dell’Italia a lui contemporanea”; “Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta ‘leggero’. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della ‘libertà’; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – ‘E lasciatemi divertire!’ – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, ‘la gente’, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità”; “Sono in trappola. Tento di ragionarci su ma sono sopraffatta dal suono lieve del suo passo, dalle pennellate di nero che abilmente distribuisce tra le ultime luci della sera. Un’ombra. No. Una silhouette. Un uomo. Nero. Come la notte che sta per sopraggiungere. La strada, la linea che demarca lo spazio tra terra e cielo. L’ orizzonte, così vicino, così lontano. E lui invece buio cupo, per il medesimo sentiero. Lo osservo distrattamente con solo un briciolo di curiosità. Sono istanti. Ma durano una vita. O un attimo. Voglio sapere dove va. Dove lo conducono i suoi passi. Un luogo sicuro, una casa, una donna. Nessuno lo sa. A tentoni, estenuato lo sguardo, lo seguo ancora. La consapevolezza di un’anima accanto alla mia mi è indifferente e mi tormenta. Il tempo incalza. Sta per svanire come ogni sera in prossimità dell’orizzonte. Quella linea che io vedo e sono in grado di percepire. È un funambolo che cammina su una linea curva. È un uomo di cui non conosco che una passeggiata serale. Dove va? Cosa vuole? All’ improvviso mi accorgo che non conta saperlo… È tranquillizzante sapere che come ogni sera lo vedrò. Non importa chi sia, quali mete, quali desideri, sogni, aspirazioni abbia. Esiste. Se lo vedo esisto anch’ io. Dio, come sono egoista. Come sono sola. Ho bisogno di un ignoto per ritrovare la strada della mia anima. O per perderla del tutto nel labirinto delle emozioni contrastanti. Sei e sarai il mio incubo? Geniale, diabolico funambolico Palazzeschi”.

Buona rilettura di questo piccolo gioiello di Palazzeschi (letto peraltro magistralmente, nel video relativo, da Nando Gazzolo) e a domani con nuovi autori e nuove poesie!

Marco Marchi

Palazzeschi e lo sconosciuto

VEDI I VIDEO “Lo sconosciuto” letta da Nando Gazzolo, “Le beghine” , “I fiori”… , … e l’inizio del romanzo “Il Codice di Perelà” letti da Paolo Poli , Piccola antologia poetica: “Chi sono?” e altri testi

Firenze, 2 febbraio 2019 – Ricordando che il 2 febbraio 1885 nasceva a Firenze Aldo Palazzeschi.

Già il 1905 segna l’atto di nascita di Palazzeschi poeta nei termini culturalizzati che immetteranno anche la biografia del giovane in contesti variati di contatti e frequentazioni. Esce infatti in quell’anno il suo primo libro di versi, I cavalli bianchi, raccolta di stampo simbolista e “poesia malata (…) da manicomio addirittura” (così l’amico Marino Moretti nel recensirla) i cui referenti culturali d’appoggio sono ravvisabili in Baudelaire e Mallarmé, Wilde, Maeterlinck e Jammes.

Su base crepuscolare, grazie ai Cavalli bianchi, si instaura in parallelo l’amicizia con Sergio Corazzini, l’estenuato e oltranzistico cantore della rinuncia vitale. Su base analoga, a suscitare l’interesse di poeti di sensibilità malinconica ma in parte almeno contraddetta come Govoni e Gozzano sarà la seconda raccolta, Lanterna, che Palazzeschi stampa a proprie spese nel 1907, dichiarandone nuovamente editore il proprio gatto, Cesare Blanc.

Spetterà infine a Poemi, la terza raccolta apparsa nel 1909 da cui la suggestiva poesia Lo sconosciuto è tratta, sollecitare l’entusiasmo ottimistico, robustamente attivistico, rivoluzionario e fagocitante di Filippo Tommaso Marinetti, da poco fondatore del movimento futurista. Del maggio 1909 è la lettera con la quale Marinetti risponde da Milano all’invio del libro, esprimendo giudizi  generici ma indubbiamente lusinghieri (“Vi è – nel vostro volume – come già nei Cavalli bianchi, un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talvolta riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova“) e invitando formalmente lo scrittore fiorentino, secondo una prassi inclusiva a lui familiare, a collaborare con i futuristi al “grande rovesciamento della vecchia imbecillità italiana”. Palazzeschi si aggrega, pronto a fornire il suo riconoscibilissimo contributo personale all’impresa.

E’, quello con Marinetti, un incontro umanamente importantissimo per Aldo Palazzeschi: un incontro professionalmente denso di implicazioni e di possibilità pratiche di affermazione, se i versi dell’Incendiario e il suo romanzo maggiore, Il Codice di Perelà, appariranno di lì a poco (rispettivamente nel 1910 e nel 1911) nelle Edizioni futuriste di “Poesia”. Ma non solo questo. La generosa e tutto sommato semplificatoria disponibilità di Marinetti ad accogliere, ad inglobare un po’ tutto all’insegna della distruzione del vecchio e della proposizione del nuovo, consentirà all’antiborghese e libertario Palazzeschi, rotto un isolamento psicologico cui già l’esercizio scrittorio aveva a suo modo offerto testimonianze e fuoriuscite di riscatto, di svolgere in piena autonomia la sua partecipazione alle vicende di un movimento e di effettuare in termini presenzialistici potenziati e per così dire protetti la continuazione di un suo discorso letterario originale.

Analogamente, con la stessa libertà, Marinetti sarebbe diventato il provocatorio, paradossale e sicuro Principe Zarlino che Perelà abbraccia e ascolta tra le mura manicomiali del Codice (e magari, nella vita, persino il disponibile fiduciario – come si desume da un accenno presente in un lettera del 1911 – di confidenze circa amori particolari incontrati un po’ alla Perelà “sotto la cappa del cielo”), ma non il futuro ideologo della guerra da condividere e seguire.

Marco Marchi

Lo sconosciuto

L’hai veduto passare stasera?
L’ho visto.
Lo vedesti ieri sera?
Lo vidi, lo vedo ogni sera.
Ti guarda?
Non guarda da lato
soltanto egli guarda laggiù,
laggiù dove il cielo incomincia
e finisce la terra, laggiù
nella riga di luce
che lascia il tramonto.
E dopo il tramonto egli passa.
Solo?
Solo.
Vestito?
Di nero è sempre vestito di nero.
Ma dove si sosta?
A quale capanna?
A quale palazzo?

Aldo Palazzeschi

(da Poemi, 1909)

I VOSTRI COMMENTI

Damiano Malabaila
Grandissimo Aldo! Una fantasia originalissima, amministrata da una intelligenza implacabile…

tristan51
Anche l’opera di Aldo Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materass”) quando sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili». La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante «Fontana malata«: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente ascoltata nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte.

framo
Specchio di chi interroga e si interroga, il poeta-passante (già passato) dallo sguardo fisso “nella riga di luce che lascia il tramonto”, dentro il suo abito nero si eclissa e si sottrae, fino a perdersi e/o trovarsi, sulla soglia del mistero, oltre l’orlo oscuro di ogni umana, incognita esistenza. Grande Palazzeschi.

Antonietta Puri
In questi versi di Palazzeschi, che identifichiamo, non a torto, come il poeta dello sberleffo, per la sua scelta di sorridere sia del clamore dannunziano che dei temi seri dei futuristi, baipassando i ripiegamenti intimistici di atri “eversivi” a lui contemporanei, si percepisce ad una prima lettura il generale senso di spaesamento procurato dall’osservazione quotidiana di un misterioso vagare senza meta, che potrebbe ricondursi, in un momento storico di profonda crisi dei valori e di esaurimento di una lunga tradizione culturale, alla paura della dispersione e dello smarrimento di punti fermi di riferimento cui ancorarsi…; tuttavia, in questo componimento, estrosamente enigmatico e sottilmente ironico, c’è forse qualcosa d’altro che riguarda la vocazione poetica dello stesso autore, una vocazione, se non negata, nemmeno conclamata, ma ancora nascosta sotto la maschera tradizionale e un po’ beffardamente stereotipata del “poeta”, descritto in terza persona: vestito di nero, misterioso, attraversa tutte le sere la città con lo sguardo rivolto all’orizzonte; si ferma, fissa il tramonto, poi se ne torna indietro. Nessuno sa chi sia, né dove alloggi. Sarà con la celebre “Chi sono?” che Palazzeschi, esibendosi in prima persona, scioglierà l’enigma, senza restrizioni, in forma liberatoria, ribaltando gli sdilinquimenti e gli svigoriti autocompianti dei suoi contemporanei, a lui non più consonanti, in follia, risata, autoironia, disposizione alla capriola come alla smorfia con una vocazione di clownesca goduria; dalla cancellazione del sé ad una stravagante ostensione dell’io!

Antonella Bottari
Sono in trappola. Tento di ragionarci su ma sono sopraffatta dal suono lieve del suo passo, dalle pennellate di nero che abilmente distribuisce tra le ultime luci della sera. Un’ombra. No. Una silhouette. Un uomo. Nero. Come la notte che sta per sopraggiungere. La strada, la linea che demarca lo spazio tra terra e cielo. L’ orizzonte, così vicino, così lontano. E lui invece buio cupo, per il medesimo sentiero. Lo osservo distrattamente con solo un briciolo di curiosità. Sono istanti. Ma durano una vita. O un attimo. Voglio sapere dove va. Dove lo conducono i suoi passi. Un luogo sicuro, una casa, una donna. Nessuno lo sa. A tentoni, estenuato lo sguardo, lo seguo ancora. La consapevolezza di un’anima accanto alla mia mi è indifferente e mi tormenta. Il tempo incalza. Sta per svanire come ogni sera in prossimità dell’orizzonte. Quella linea che io vedo e sono in grado di percepire. È un funambolo che cammina su una linea curva. È un uomo di cui non conosco che una passeggiata serale. Dove va? Cosa vuole? All’ improvviso mi accorgo che non conta saperlo… È tranquillizzante sapere che come ogni sera lo vedrò. Non importa chi sia, quali mete, quali desideri, sogni, aspirazioni abbia. Esiste. Se lo vedo esisto anch’ io. Dio, come sono egoista. Come sono sola. Ho bisogno di un ignoto per ritrovare la strada della mia anima. O per perderla del tutto nel labirinto delle emozioni contrastanti. Sei e sarai il mio incubo? Geniale, diabolico funambolico Palazzeschi.

Arianna Capirossi
Della scrittura poetica di Palazzeschi mi ha sempre affascinato il ritmo, solo in apparenza casuale. La sua è sempre una poesia fortemente musicale: questo aspetto risulta più evidente nei componimenti in cui impiega le onomatopee, ma in realtà è presente anche negli altri. Ne “Lo sconosciuto” la successione di versi, perlopiù brevi, costruisce un dialogo laconico, dal ritmo ben marcato, in cui le parole si ripetono e susseguono inseguendo il mistero dello sconosciuto passante, senza però riuscire a svelarlo. Sul finale, il ritmo sembra accelerare, come l’ansia e l’incertezza di chi si pone le domande: ma lo sconosciuto sfugge all’osservatore, lasciando dietro di sé un enigma.

Giulia Bagnoli
Lo sconosciuto è colui che guarda il mondo da un’altra parte, quella del “diverso”, e vive in un mondo “altro”, lontano dalla norma comune. Questo sconosciuto guarda “laggiù dove il cielo incomincia”, perché vede con gli occhi dell’immaginazione. Bellissima!

Maria Grazia Ferraris
Mi stupisce sempre il giovane Palazzeschi, con la sua vena ampia, dolente, storicamente non allineata, tutta piena di apparenti chiari e di ombre che turbano in modo enigmatico: “guarda laggiù/… nella riga di luce/che lascia il tramonto”. La solitudine lascia inalterato ed inevaso l’interrogativo sulla meta. L’immagine misteriosa ci chiarisce la complessità di questo Autore, apparentemente facile, infantile, giocoso, i cui testi, vengono utilizzati dalla scuola per l’acquisizione di scelte stilistiche facili e significative e per la teatralizzazione deformante, la trasgressività di matrice futurista…. Certo è che qui ci troviamo di fronte al dilemma paradossale della non scelta tra la funzione trasgressiva dell’Arte, liberatrice del gioco che obbedisce al principio del piacere e la regressione dolorante dell’Autore , “ vestito di nero”, nel tramonto.

Matteo Mazzone
La scrittura come importantissimo documento, come raccolta di fragmenta impoetiche, disusate, anticonvenzionali. Essa, dunque, si fa testimonianza di quel lusus-ludus che martellerà come un leitmotiv inceppato tutte le opere romanzesche e poetiche, per presentarci un Palazzeschi sempre pronto allo schizzo, al guizzo, al buffo, al lazzo e parallelamente ad un bilancio esistenziale che, amaramente, cede lentamente il passo alla rassegnazione di una vita che sta per finire. Se Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento, se Pasolini è il più grande elegiaco in prosa ed in versi del secondo Novecento, se Zanzotto è il più grande poeta del secondo Novecento, Palazzeschi-Giurlani copre tutto il Novecento come migliore interprete delle sensibilità artistico-stilistiche italiane (almeno le prime), fino ad una personalizzazione propria che fa del gioco, del divertissement un’antifrastica chiave di lettura dell’Italia a lui contemporanea.

Ferruccio Palmucci
A una prima lettura, questa poesia mi ha fatto pensare a qualcosa di inquietante. Per esempio alla morte. Uno sconosciuto “sempre vestito di nero”, che passa dopo il tramonto con lo sguardo fisso “dove finisce la terra”, apparendo tutte le sere d’improvviso e silenzioso come un fantasma, che induce i curiosi a domandarsi l’un l’altro con voce sommessa: “L’hai visto passare stasera? L’ho visto – Lo vedesti ieri sera? Lo vidi, lo vedo ogni sera. – Solo? Solo”, mi è sembrata la metafora enigmatica e muta della morte. Mi aveva richiamato alla memoria addirittura l’immagine angosciante dei corvi neri del film di Hitchcock “Gli uccelli”, metafora di un’inquietudine indefinibile e ignota. Poi ho pensato al Palazzeschi di “Rio Bo”, di “Lasciatemi divertire”, di “Chi sono?” e mi sono detto che un poeta che dice a se stesso: “Sono il saltimbanco dell’anima mia” non poteva essere così diretto con l’idea della morte. Allora ho pensato a un’altra possibile lettura. Lo “sconosciuto” potrebbe essere “l’altro” di tutti noi, la metafora della impossibilità di comunicare e di conoscere gli altri verso i quali nutriamo mille sospetti, e talvolta anche mille timori; che ci appaiono perciò “sempre vestiti di nero”, oscuri, incomprensibili e irriconoscibili. Dunque una lettura un po’ pirandelliana, un modo di ingannare noi stessi perché, diversamente dalle apparenze, lo “sconosciuto” potrebbe essere del tutto diverso da come lo vediamo. E, se questa fosse la giusta interpretazione, ecco allora lo spirito bonariamente pungente di Palazzeschi, il quale, in realtà, si beffa di noi, ci dice quanto siamo ingenui a fidarci delle apparenze, a farci domande un po’ maligne su qualcuno che se ne va per i fatti suoi e a cui piace osservare il tramonto, stare solo e vestirsi di nero.

Isola Difederigo
Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta “leggero”. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della “libertà”; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – “E lasciatemi divertire!” – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, “la gente”, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità.

Chiara Scidone
In questa poesia ci sono tante domande, le domande che Palazzeschi si pone in molte delle sue poesie : “chi sono ? “… Lo sconosciuto, il diverso, forse un po’ come si sentiva lui stesso e come a volte ci sentiamo un po’ tutti. Ma lo sconosciuto sa guardare dove gli altri non guardano, in un posto lontano e indefinito, un posto che solo lui conosce, posto bellissimo come la riga di luce che lascia il tramonto.

tristan51
Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome.

Marco Capecchi
Lo sconosciuto, il diverso, l’altro che ci interpella. Bella poesia di uno scrittore che, per me, con il “Codice Perelà”, ci ha donato, nel ‘900, un libro fondamentale.

Lorenzo Dini
Crepuscolare sui generis, poi futurista sempre a modo suo, uomo del suo tempo e mai prigioniero di esso come ci ricorda Montale, Palazzeschi rappresenta la voce irriducibile che si rifiuta di prendere disciplinatamente posto nella linea grave e lirica della nostra tradizione poetica italiana. E come nel suo mondo piccino piccino di “Rio Bo” Palazzeschi si nasconde dietro all’astro con la solita smorfia beffarda del clown, così egli si presenta al lettore come il “poeta sepolto vivo” di “Postille”, così questa volta è l’immagine dello “Sconosciuto” che ci riconferma lo spregiudicato “uomo di fumo”-Palazzeschi.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Dei versi liberi di lunghezza variabile – alcuni di una sola parola! – una sorta di dialogo che resta in sospeso, tante domande senza risposta: Palazzeschi irrompe nella poesia d’inizio Novecento con una ventata di novità e si contrappone con forza alla poesia della tradizione!

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