Firenze, 30 aprile 2019 – Ieri abbiamo festeggiato Eugenio Montale, oggii festeggiamo Mark Strand (rispettivamente con il post Montale e gli uomini che non si voltano e La morte del padre. Mark Strand che qui si ripubblica. Sì, perché la nostra gara mensile si conclude stavolta, al primo posto e secondo quanto accade pure agli altri due gradini del podio, con degli ex aequo: tre ex aequo, e con la poesia straniera, in lingua inglese e in lingua francese, al fianco di quella italiana. Al secondo posto, infatti, compaiono, ancora alla pari, Betocchi e Zanzotto, ambedue su tema pasquale (Pasqua con Carlo Betocchi e La Pasqua di Andrea Zanzotto), al terzo Baudelare e Primo Levi (Elevazione. Charles Baudelaire e Perché sono tornato. Primo Levi). Niente di più articolato, armonico e significativo, in nome della poesia e delle sue attestazioni passate durante il mese di aprile al vaglio della vostra attenzione e del vostro giudizio, si sarebbe potuto pretendere!

Tra i molti bei commenti alla celebre poesia montaliana tratta da “Ossi di seppia” scegliamo indicativamente quelli di Antonietta Puri, Feruccio Palmucci e Antonella Bottari. Ecco, nell’ordine: “Non usa metafore Mark Strand nel registrare la cronaca del percorso lento, ma inesorabile del padre verso la morte; la sua poesia è pervasa da una grande pena e da una sorta di stupore per questo mettersi in ostinato cammino verso il fine vita dell’uomo che egli credeva non dovesse mai morire e, con un realismo crudo, quasi spietato nomina la malattia, la vecchiaia, la sofferenza, l’infiacchimento, il dolore, il sangue, i sospiri e le lacrime… Ma, una volta tanto, sono io lettrice ad essere tentata dalla metafora e mi figuro questo viaggio verso la morte come un percorso a ritroso lungo gli argini del fiume metaforico dell’esistenza, dalla pianura, su su, fino alla sorgente che infine lo accoglierà: un viaggio tutto in salita, tanto più spossante quanto più la meta si fa vicina; un continuare a vivere, ma con le spalle ostinatamente rivolte al futuro, senza farsi irretire dalle lusinghe del passato, contro ogni vano tentativo di un figlio che lo vorrebbe immortale, contro la “pietas” di una figlia che gli è ormai diventata madre: una madre al contrario, che invece di veder crescere la propria creatura, la vede ritirarsi e rimpicciolire. L’uomo, il padre, cammina arrancando lungo l’erta e niente e nessuno può fermarlo: né la bellezza che lo circonda, nè i consigli del medico, né l’apprensione amorosa degli amici e dei famigliari, né tantomeno i giochi dei bimbi; egli guarda diritto davanti a sé contro il vento che lo strattona, ma non lo dissuade; non lo dissuadono la debolezza sempre maggiore delle sue gambe, gli edemi, il freddo che gli punge le ossa in profondità, la voce che si affievolisce, il fiato che si fa sempre più corto, nel salire su verso la meta. Solo uno sguardo all’orologio e il sogno degli spazi che presto non lo conterranno più.Un meraviglioso Strand”; “Alla mia prima lettura di questa grande elegia della vita e della morte, di questo canto sublime di tristezza, mi sono tornati alla memoria i versi di Ungaretti; ‘La morte/ si sconta / vivendo’. La vita e la morte non sono gli estremi di un cammino che inizia in una luminosa prateria e termina, fra alterne vicende, in un abisso oscuro e sconosciuto, ma il camminare insieme portando impressa nella mente la coscienza dell’evento fatale. Ungaretti ‘sconta la morte’ nel sentirsi una pietra ‘fredda, dura …totalmente disanimata’, uno stato gelido, privo di immagini consolatorie, già quasi non più vita e molto più morte. Strand descrive invece il morire del padre con toni lirici, in forma di litania dolorosa simile a una sinfonia malinconica e tragica scandita da un ‘leitmotiv’: ‘Niente riusciva a fermarti… Continuavi a morire’. La morte è qui talmente intrecciata alla vita che, ancor prima del suo fatale accadere, l’uomo la vive emotivamente come il viandante seguito dalla sua ombra, come proiezione del vivente e del morente, come un vivere morendo. Eppure, accanto al dolore della scomparsa, l’accento poetico è così intensamente evocativo, che il lento e incessante morire si intreccia alla vita, si traduce in una voce di costante richiamo. Nonostante quel ‘Niente riusciva a fermarti…’, la vita continua a chiamare con ‘l’ondeggiare dell’oceano’, con ‘le piante che ti davano ombra’, col giocare “con i bambini”, con l’affetto e la vicinanza dei figli, di ‘tua figlia che ti imboccava e ti aveva reso di nuovo bambino’. E continua a chiamare anche nei momenti più tristi perché anche la tristezza e il dolore sono vita; vita che si allontana, ma che si vorrebbe trattenere ancora un po’, seppur umiliata e consunta, anche quando ‘gli occhi si rifiutavano di guardare avanti’, o ‘il volto ti si faceva bianco’, o ‘ti sentivi venir meno’. La vita a poco a poco ti abbandonava, ‘continuavi a morire’ e ‘sognavi il mondo senza di te, lo spazio degli alberi, lo spazio di casa tua’ e non potevi immaginare che ciò potesse accadere realmente, ‘che gli spazi si sarebbero fatti vuoti di te’- Mi vengono in mente le parole di G. Jung il quale riferisce che l’inconscio dei malati terminali non crede alla morte, non la riconosce né la teme. Ma, alla fine, l’ineluttabile accadrà. L’ombra che aveva seguito il viandante intrecciata alla vita stenderà il suo nero mantello. Bella e commovente poesia il cui nichilismo è stupendamente sublimato dal suo tono elegiaco, doloroso e sinfonico”; “Una lezione da cogliere nei versi di Strand è la sua assoluta fedeltà alle parole; gli oggetti, il mondo, considerati nel pieno del valore lessicale e metaforico della lingua. Egli non persegue una direzione nella sua poesia, tutte sono possibili; la sua poesia abita sì i contorni fissi, nitidi degli oggetti ma è sempre aperta alla problematicità che vuole raffigurare. Nel suo discorso poetico è palese perciò la perseveranza dell’occhio che guarda. Così l’assente si percepisce per tracce che sono rimaste nell’iperspazio nel quale è il verso che muove un alchemico caleidoscopio in un vorticare di sensazioni che scaturiscono dalla materia e che volano incontro all’anima, in cerca di uno scrigno che contenga la costruzione-distruzione di un amore”.

Buona conclusione di mese con i nostri poeti del blog d’aprile, e buon maggio, ancora all’insegna della poesia e di suoi rappresentanti validissimi!

Marco Marchi

I VOSTRI COMMENTI

Antonella Bottari
Una lezione da cogliere nei versi di Strand è la sua assoluta fedeltà alle parole; gli oggetti, il mondo, considerati nel pieno del valore lessicale e metaforico della lingua.
Egli non persegue una direzione nella sua poesia, tutte sono possibili; la sua poesia abita sì i contorni fissi, nitidi degli oggetti ma è sempre aperta alla problematicità che vuole raffigurare. Nel suo discorso poetico è palese perciò la perseveranza dell’occhio che guarda.
Così l’assente si percepisce per tracce che sono rimaste nell’iperspazio nel quale è il verso che muove un alchemico caleidoscopio in un vorticare di sensazioni che scaturiscono dalla materia e che volano incontro all’anima, in cerca di uno scrigno che contenga la costruzione – distruzione di un amore.

Arianna Capirossi
Questa poesia illustra nel più efficace dei modi il concetto di “inesorabilità”: il tempo scorre e conduce ogni inizio verso la sua fine. Qui la fine rappresentata non è improvvisa, ma progressiva, e ravviva il dolore dell’impotenza dell’autore, che non può fare altro che scrivere nel tentativo di dare un senso alla sofferenza che prova e a cui assiste.

tristan51
Magnifico poeta, Strand, tutto da conoscere. Un poeta ai vertici dell’espressività contemporanea. Basterebbe la sola “Elegia per mio padre” a farne un fuoriclasse, a foscolianamente immortalarlo.

Paolo Parrini
L’elegia in morte del padre , il suo ricordo che si stempera nel tempo passato , ma che trasuda un dolore che niente potrà lenire. Vengono in mente altre celebri poesie sul padre, come quella di Sbarbaro, che raccontava scena di vita quotidiana con una tenerezza sublime, o quella di Gatto, mirabile rammentare un uomo e il suo sguardo perduti nella morte del corpo, ma vividi nel ricordo.Ma questa di Strand, questa bellissima, tenera dolorosa elegia ha qualcosa di diverso, è come uno scavare, un rincorrere immagini e sovrapporle. Continuavi a morire… niente riusciva a fermarti… il figlio che rammenta l’agonia che si sovrappone al vissuto e si fa Poesia dell’Anima e di ogni uomo che il Padre ha perduto. Dentro alle pieghe del tempo che non ritorna, troviamo questo dono prezioso, una sorta di suggestione eterea e concreta: il Padre vive ancora, in ogni suo gesto, in ogni piccolezza della sua vita che ora assume funzione simbolica e in qualche modo, dolorosamente consolatoria.

Antonietta Puri
Non usa metafore Mark Strand nel registrare la cronaca del percorso lento, ma inesorabile del padre verso la morte; la sua poesia è pervasa da una grande pena e da una sorta di stupore per questo mettersi in ostinato cammino verso il fine vita dell’uomo che egli credeva non dovesse mai morire e, con un realismo crudo, quasi spietato nomina la malattia, la vecchiaia, la sofferenza, l’infiacchimento, il dolore, il sangue, i sospiri e le lacrime…Ma, una volta tanto, sono io lettrice ad essere tentata dalla metafora e mi figuro questo viaggio verso la morte come un percorso a ritroso lungo gli argini del fiume metaforico dell’esistenza, dalla pianura, su su, fino alla sorgente che infine lo accoglierà: un viaggio tutto in salita, tanto più spossante quanto più la meta si fa vicina; un continuare a vivere, ma con le spalle ostinatamente rivolte al futuro, senza farsi irretire dalle lusinghe del passato, contro ogni vano tentativo di un figlio che lo vorrebbe immortale, contro la “pietas” di una figlia che gli è ormai diventata madre: una madre al contrario, che invece di veder crescere la propria creatura, la vede ritirarsi e rimpicciolire. L’uomo, il padre, cammina arrancando lungo l’erta e niente e nessuno può fermarlo: né la bellezza che lo circonda, nè i consigli del medico, né l’apprensione amorosa degli amici e dei famigliari, né tantomeno i giochi dei bimbi; egli guarda diritto davanti a sé contro il vento che lo strattona, ma non lo dissuade; non lo dissuadono la debolezza sempre maggiore delle sue gambe, gli edemi, il freddo che gli punge le ossa in profondità, la voce che si affievolisce, il fiato che si fa sempre più corto, nel salire su verso la meta. Solo uno sguardo all’orologio e il sogno degli spazi che presto non lo conterranno più.Un meraviglioso Strand.

Maria Grazia Ferraris
Colpiscono soprattutto il ritmo (essenziale, ripetitivo, simmetrico) e l’espressività straordinariamente concisa, elegantemente e silenziosamente drammatica nella sua inquietudine. Stanno tutte lì le contraddizioni, e i sentimenti di una vita, i silenzi. gli interrogativi della vita propria ed altrui, con la disperante risposta: “niente riusciva a fermarti”: non…non… non…in un climax ascendente – dalla natura alla civiltà, dal privato al sociale, dal pieno al vuoto, dal passato alla mancanza di futuro- , in ripetizioni apparentemente semplici, asciutte, concise. Nessuna invocazione, nessun sentimentalismo, nessuna enfasi retorica, nessuna consolazione : era “il tuo morire”. “Niente riusciva a fermarti./ Non il tuo respiro. Non la tua vita./Non la vita che volevi./Non la vita che avevi”.

Rosalba de Filippis
“Padre che muori tutti i giorni un poco”. Neanche noi vorremmo che morisse questo padre. Che poi sarebbe il nostro. E noi siamo vuoti come una stanza, come solo uno spazio sotto gli alberi può essere vuoto di un padre. Noi che siamo riassunti in quelle radici, del resto sappiamo che se i padri non smettono mai di morire, in fin dei conti non muoiono mai.

Roberta MaestrelliBerti
Bellissima questa “elegia in morte dl padre”:vi si legge il dolore per la perdita, ma soprattutto l’angoscia nel sentirsi così impotente di fronte all’inesorabile avanzare della fine. Ed è lì, alla morte che lentamente la vita ci conduce, inesorabilmente; né tutto il dolore né tutto l’amore possono fermarla.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
La sofferenza di tutti noi, il vuoto incolmabile di tutti gli esseri umani: questo sanno esprimere con parole indelebili i grandi poeti, e noi ci ritroviamo nelle loro parole e il loro dolore mitiga un poco le nostre perdite inconsolabili. Grandissimo Strand…

Giulia Bagnoli
Bellissimi versi che sembrano immagini, fotografie, lampi di vita che non possono essere trattenuti, perché il treno verso l’ultima destinazione è ormai partito. Bello e tristissimo il tentativo di fermare la “corsa”; di ignorare la fermata. La morte arriva inesorabile e spesso senza avvertire, rendendo ogni cosa vana e inutile.

Ferruccio Palmucci
Alla mia prima lettura di questa grande elegia della vita e della morte, di questo canto sublime di tristezza, mi sono tornati alla memoria i versi di Ungaretti; “La morte/ si sconta” vivendo.” La vita e la morte non sono gli estremi di un cammino che inizia in una luminosa prateria e termina, fra alterne vicende, in un abisso oscuro e sconosciuto, ma il camminare insieme portando impressa nella mente la coscienza dell’evento fatale. Ungaretti “sconta la morte” nel sentirsi una pietra “fredda, dura …totalmente disanimata”, uno stato gelido, privo di immagini consolatorie, già quasi non più vita e molto più morte. Strand descrive invece il morire del padre con toni lirici, in forma di litania dolorosa simile a una sinfonia malinconica e tragica scandita da un “leitmotiv”: “Niente riusciva a fermarti …Continuavi a morire.” La morte è qui talmente intrecciata alla vita che, ancor prima del suo fatale accadere, l’uomo la vive emotivamente come il viandante seguito dalla sua ombra, come proiezione del vivente e del morente, come un vivere morendo. Eppure, accanto al dolore della scomparsa, l’accento poetico è così intensamente evocativo, che il lento e incessante morire si intreccia alla vita, si traduce in una voce di costante richiamo. Nonostante quel “Niente riusciva a fermarti …”, la vita continua a chiamare con “l’ondeggiare dell’oceano”, con “le piante che ti davano ombra”, col giocare “con i bambini”, con l’affetto e la vicinanza dei figli, di “tua figlia che ti imboccava e ti aveva reso di nuovo bambino.” E continua a chiamare anche nei momenti più tristi perché anche la tristezza e il dolore sono vita; vita che si allontana, ma che si vorrebbe trattenere ancora un po’, seppur umiliata e consunta, anche quando “gli occhi si rifiutavano di guardare avanti”, o “il volto ti si faceva bianco”, o “ti sentivi venir meno.” La vita a poco a poco ti abbandonava, “continuavi a morire” e “sognavi il mondo senza di te, lo spazio degli alberi, lo spazio di casa tua” e non potevi immaginare che ciò potesse accadere realmente, “che gli spazi si sarebbero fatti vuoti di te.” Mi vengono in mente le parole di G. Jung il quale riferisce che l’inconscio dei malati terminali non crede alla morte, non la riconosce né la teme- Ma, alla fine, l’ineluttabile accadrà. L’ombra che aveva seguito il viandante intrecciata alla vita stenderà il suo nero mantello. Bella e commovente poesia il cui nichilismo è stupendamente sublimato dal suo tono elegiaco, doloroso e sinfonico.

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