Firenze 31 agosto 2019 – Vince di strettissima misura su Cesare Pavese Primo Levi. Il suo post Primo Levi e la bambina di Pompei, che qui si ripubblica secondo le nostre regole con i vostri commenti, precede infatti, nei gradimenti che esprimete appunto commentando, il post La morte e gli occhi. Cesare Pavese, cui va dunque un meritatissimo secondo posto (che però è quasi considerabile un ex-aequo). Medaglia di bronzo veramente alla pari da spartirsi invece, a completamento del podio agostano, tra Giovanni Pascoli e Antonia Pozzi, rispettivamente con Notte di San Lorenzo con Giovanni Pascoli e Ombra nell’ombra. Antonia Pozzi. Seguono a drappello, apprezzatissimi, i post dedicati a Elsa Morante, Daria Menicanti e Aldo Palazzeschi.

Tra i vostri commenti sulla bella poesia di Levi segnaliamo quelli di Antonietta PuriArianna Capirossi e framo. Nell’ordine: “Se la morte è la naturale dissoluzione del corpo, a cosa serve conservarne i resti se non sono poi i ricordi, i pensieri e le cure dei vivi a rinnovarne la memoria? A che giova una tomba, seppure monumentale, se un giorno, soffocata dalle erbacce, nessuno ricorderà di chi fu? Certo, la rosa rossa che una pia mano posa regolarmente sulla statua da morta della bella Sofia Kailenskaja, detta Sonia, spinge forse i visitatori del cimitero di San Michele a Venezia a domandare di lei, di chi fosse, del perché del suo suicidio, di quale fosse stato il suo dramma di innamorata tradita, mentre camminando, forse danno solo un’occhiata distratta alle tombe di Diaghilev e di Stravinskij… Se un luogo di sepoltura è curato dai vivi, alimenta la presenza in spirito di chi fu in vita e morì, secondo il destino di tutto ciò che vive. Primo Levi riflette sulla vita, sulla morte e porta il caso – raro per la verità – della ‘Bambina di Pompei’, caso in cui (come in tutti i gessi di Pompei), un corpo morto diventa al tempo stesso tomba e simulacro di se stesso, un corpo che, prima di disfarsi, creò una cavità tra le pomici e le ceneri indurite del Vesuvio che, riempita di gesso stemperato, divenne il ritratto vero della defunta, lasciandoci colmi di stupore, di emozione e di rispetto per quella ‘ripresa in diretta’, dell’attimo della morte che la natura stessa, forse per farsi perdonare l’empietà, volle tributarle, ritraendola nella stretta convulsa e terrorizzata alla madre ; e questa immagine – riflette Primo Levi – ce la fa ricordare per sempre, immaginandola in vita e facendoci rivivere la sua angoscia nel terribile momento. Il fulcro della riflessione di Levi è il seguente: se la morte giunge per cause naturali, seppure disastrose e persino inferta dalla propria meno o da quella di un assassino mosso da una pulsione forte e insopprimibile, si riesce prima o poi ad accettare e una tomba diventerà foscolianamente un tramite per una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ tra i vivi e i morti; ma quando essa sopravviene per la volonta di chi ritiene di poterlo fare impunemente perché detiene un potere politico smisurato e la padronanza sul mondo…, non solo è impossibile accettarla, ma è crudele e ingiusto che non esista neanche un minuscolo angolo di terra in cui onorare i resti, per esempio di Anna Frank, o quelli della scolaretta di Hiroshima: che ne è dei resti loro e di altri milioni di innocenti morti per l’arroganza, la stupidità, lo strapotere di chi ordinò, ma anche di chi eseguì? Ancora una volta Primo Levi usa l’esortativo ‘Considerate’ (‘Se questo è un uomo’), nel suo vero, straordinario significato etimologico: ‘…osservate gli astri per trarne auspici, prima di agire’, poi fermatevi, prima di perpetrare un delitto da cui la vostra coscienza non potrà mai essere ripulita (come le mani di Lady Macbeth…). Chissà, sarà stata la natura, madre e non matrigna, ad assorbire nel suo grembo la bambina di Pompei; sarà stata lei ad assumere in cielo le ceneri di Anna e a far svaporare nella luce la piccola di Hiroshima? Certo, non è stata la pietà umana di chi ordinava e di chi eseguiva gli ordini e forse nemmeno la pietà divina, giacché proprio Primo Levi ebbe a scrivere: ‘Se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza’. Teniamo sempre vivo il ricordo di chi è morto per l’ingiustizia umana!”; “La poesia di Levi fotografa l’eterna innocenza e purezza infantili ciclicamente macchiate da catastrofi. Ma alla catastrofe naturale di Pompei, che apre il componimento, il poeta associa poi due catastrofi stolidamente volute dall’uomo: l’Olocausto, Hiroshima. È un monito a ricordare, un grido di speranza rivendicata per i più giovani, un serio invito ad avere rispetto dell’altro e del futuro dell’uomo. Le tragedie del passato vanno conosciute e ricordate, per rispetto delle vittime e della loro sofferenza, perché il loro sacrificio rimanga, permanga nella nostra memoria. ‘Tu rimani’, dice Levi alla bambina di Pompei; ‘Nulla rimane’ di Anna Frank o della bambina di Hiroshima, ma proprio per questo vanno permanentemente ricordate e rievocate. Levi descrive le tragedie volute dall’uomo che si abbattono sui più deboli rimarcandone l’ingiustizia, così come, secoli prima, fece un altro poeta, che visse il tempo dei miti e della religione pagana: Lucrezio. A lui Levi sembra ispirarsi nel verso: ‘vittima sacrificata sull’altare della paura’ Lucrezio, nel primo libro del ‘De rerum natura’, raccontava la storia di Iphianassa: ella, vittima di un rito superstizioso approvato dal padre Agamennone, morì immolata sull’altare presso cui pensava di sposarsi; e, prima di morire, comprendendo l’inganno, fu immobilizzata dal terrore: ‘muta metu terram genibus summissa petebat’, muta per la paura, piegate le ginocchia, si accasciò a terra. È un’immagine di ingiustizia umana molto simile a quelle proposte da Levi, che ci invita a riflettere sui mali provocati dall’uomo. La poesia di Levi, come quella di Lucrezio, è strumento di conoscenza e miglioramento della condizione umana, e come tale è lucida ed essenziale”; “Solo i grandissimi come Primo Levi hanno il dono di dare voce pienamente al ‘bisogno umano di esprimere in poesia anche le cose più atroci’ (nel video in cui l’autore si racconta), riuscendo a conservare un tono lucido ma comunque evocativo, senza cedere minimamente al pietismo o al nichilismo privo di ogni possibilità di appello. Quanta arte – restituzione alla vita, dunque – nell’immagine della fanciulla scarna che si è stretta convulsamente alla madre ‘quasi volesse ripenetrare in lei/ quando al meriggio il cielo si è fatto nero’, e in quella della ‘casa tranquilla dalle pareti robuste/ lieta (…) del (di lei) canto e (…) timido riso’ all’avvicinarsi della morte. Una tragica verità testimoniale, un monito spirituale e civile profondo prendono qui parola. Traggono voce dalla forma di un bellissimo, toccante e ‘contorto calco di gesso’ e risvegliano in noi ‘un’agonia senza fine'”.

Molto significativo poi, e dunque da citare, anche il commento di una gentile signora giapponese che innamorata dell’Italia e della letteratura italiana costantemente, da anni, segue con affezione il nostro blog: la bravissima Yumiko Nakajima, che in questa circostanza scrive: “Ho letto sulle poesie di Primo Levi e soprappongo le tragedie di Olocausto a quelle delle città danneggiate dalla bomba atomica. Ora, in agosto, è il proprio momento di ripensare le tragedie di Hiroshima e Nagasaki e recentemente ho consultato sulla storia e sui danni dalla bomba atomica. Anche penso che noi dobbiamo pensarci di abbandonare le crudeli armi nucleari”.

L’estate sta finendo, ma le nostre “Notizie di poesia” non conoscono battute d’arresto o cambi di stagione… A domani con nuovi testi e nuovi poeti!

Marco Marchi

Primo Levi e la bambina di Pompei

Firenze, 1 agosto 2019 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919).

Potremmo definire la testimonianza poetica di Primo Levi con una sorta di preliminare paradosso. Una poesia illuministica, quella di Levi, eticamente e civilmente sostenuta, del tutto degna di un’eredità torinese-gobettiana, per cui la poesia classica, la più antica, quella greca e latina per intendersi, quella più a monte, di intervenute complicazioni storiografico-letterarie legate alla modernità, si configura sostanzialmente come il suo sapore più apprezzabile e prima ancora come la sua più naturale pietra di paragone, la sua risorsa più affidabile, il suo nutrimento certo cui guardare.

La poesia di Levi si pone infatti, con naturalezza, sulla scia di quella che un altro scrittore e poeta contemporaneo a Primo Levi, Sergio Solmi, avrebbe definito la “poesia senza tempo”, pur non potendo sottrarla, nel trattamento dei temi eterni del bene e del male, dell’amore e della solitudine, dell’innocenza e della corruzione che la connotano, ad una riconoscibile storicità di riferimento, linguistica e culturale, che ne sottolinea caso mai, articolando e internamente coniugando, la perdurante validità tematica e di messaggio.

È uno splendido testo poetico di Mario Luzi – Seme, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini – a suggerirci invece, ancora preliminarmente, l’idea tematica delle “due”, le “sole”: la vita e la morte, che protagonisticamente e agonicamente sovrintendono ai destini dell’uomo, li determinano, intrecciandosi, affrontandosi ed alternandosi. Ed è attraverso queste stilizzatissime ipotesi e attraverso i puntuali rilevamenti e le puntuali agnizioni che sperimentalmente, concretamente e, pensando anche al Levi chimico, scientificamente le inverano, che la poesia di Primo Levi investe, testimoniandoli, l’uomo e l’essere al mondo dell’uomo: forte di un’esperienza mortuaria pregressa, algida, fangosa e notturna, come quella dei Lager tedeschi, ma non abdicando, tramite ancora quella tragica vita-morte anticipatamente provata, alla speranza di potere ancora sperare, di potere di nuovo tornare a vivere, a “Camminare liberi sotto il sole” (è il verso conclusivo di 25 febbraio 1944), secondo quei fronteggiamenti e più ancora quei già confusi, instabili e già indifferenziati impasti di vita, morte e ancora vita, che sono temi ineludibili della poesia e, insieme, costanti dell’esistere.

Risulta in questo senso emblematico il sostanziale sincretismo assolutizzante su cui converge la scansione temporale interna di un testo giustamente noto come La bambina di Pompei. Ma preme prima di tutto notare come la poesia subentri sì, in Levi, secondo quanto suggerito da un titolo suggestivo e azzeccato, citazionale (dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge con i versi del prelievo poi citati più ampiamente come esergo in I sommersi e i salvati) “ad ora incerta”, ma non secondo la condizione rilkiana sottesa a una dichiarazione come quella ricavabile dal poeta delle Elegie duinesi: “Adesso la mia mano scriverà qualcosa che io non sono in grado di capire”.

“Ad ora incerta”, in altri termini, ma dovendo rinunciare a credere che è proprio l’incertezza una plausibile marca di riconoscimento dell’operare in versi, una alternativa forma di certezza “altra” nell’affidarsi ad essa, alle sue obliquità e alle sua ambiguità, ai suoi probabilismi quanto più ignorati e inattesi, avventurosamente imprevisti e sfuggenti tanto più costitutivi, conclusivamente efficienti; e “ad ora incerta”, ritrovando quasi per magia l’immagine della mano che scrive nel libro di Levi poeta: con “questa / Mano che scrive” testualmente, curiosamente corrispondente nella chiusura di Nel principio.

Sta di fatto che uno status ispirativo come quello certificato da Rilke, input alla scrittura e suo continuo sottofondo linguisticamente autorizzante e configurante – uno status culturalmente culminato nel Novecento, come si sa, nelle poetiche tra loro diversissime ma in questo convergenti del surrealismo e dell’informale – in Levi non trova spazio. Si afferma invece la costituzione di un messaggio in qualche modo già enucleato e sufficientemente precostituito, e in questi termini da spartire socialmente, una volta formulato, in chiari termini di comunicazione: stagliandosi con contorni abbastanza netti fin dalla preliminare individuazione del tema poetabile, fin dal balenare più arretrato e primigenio di un’idea compositiva, di un’“occasione”.

Marco Marchi

La bambina di Pompei

Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra
ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
che ti sei stretta convulsamente a tua madre
quasi volessi ripenetrare in lei
quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
è filtrata a cercarti per le finestre serrate
della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
a incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
agonia senza fine, terribile testimonianza
di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
la sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
tristi custodi segreti del tuono definitivo,
ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

Primo Levi

(da Ad ora incerta, in Opere, Einaudi 1997)

tristan51
Basterebbero poesie come il “Canto dei morti invano” o come questa “La bambina di Pompei” a fare del rapsodico ma costantemente obbediente testimone della poesia Primo Levi un poeta tutto da rileggere e da scoprire: un poeta, soprattutto, convinto della necessità della poesia, la cui applicazione rivela – citando un suo lettore attento, il poeta uruguaiano Mario Benedetti – «profondità che a volte / la prosa tace».

Antonietta Puri
Se la morte è la naturale dissoluzione del corpo, a cosa serve conservarne i resti se non sono poi i ricordi, i pensieri e le cure dei vivi a rinnovarne la memoria? A che giova una tomba, seppure monumentale, se ungiorno, soffocata dalle erbacce, nessuno ricorderà di chi fu? Certo, la rosa rossa che una pia mano posa regolarmente sulla statua da morta della bella Sofia Kailenskaja, detta Sonia, spinge forse i visitatori del cimitero di San Michele a Venezia a domandare di lei, di chi fosse, del perché del suo suicidio, di quale fosse stato il suo dramma di innamorata tradita, mentre camminando, forse danno solo un’occhiata distratta alle tombe di Diaghilev e di Stravinskij… Se un luogo di sepoltura è curato dai vivi, alimenta la presenza in spirito di chi fu in vita e morì, secondo il destino di tutto ciò che vive. Primo Levi riflette sulla vita, sulla morte e porta il caso – raro per la verità – della Bambina di Pompei, caso in cui (come in tutti i gessi di Pompei), un corpo morto diventa altempo stesso tomba e simulacro di se stesso, un corpo che, prima di disfarsi, creò una cavità tra le pomici e le ceneri indurite del Vesuvio che, riempita di gesso stemperato, divenne il ritratto vero della defunta, lasciandoci colmi di stupore, di emozione e di rispetto per quella “ripresa in diretta”, dell’attimo della morte che la natura stessa, forse per farsi perdonare l’empietà, volle tributarle, ritraendola nella stretta convulsa e terrorizzata alla madre ;e questa immagine – riflette Primo Levi – ce la fa ricordare per sempre, immaginandola in vita e facendoci rivivere la sua angoscia nel terribile momento. Il fulcro della riflessione di Levi è il seguente: se la morte giunge per cause naturali, seppure disastrose e persino inferta dalla propria meno o da quella di un assassino mosso da una pulsione forte e insopprimibile, si riesce prima o poi ad accettare e una tomba diventerà foscolianamente un tramite per una “corrispondenza d’amorosi sensi” tra i vivi e i morti; ma quando essa sopravviene per la volonta di chi ritiene di poterlo fare impunemente perché detiene un potere politico smisurato e la padronanza sul mondo…, non solo è impossibile accettarla, ma è crudele e ingiusto che non esista neanche un minuscolo angolo di terra in cui onorare i resti, per esempio di Anna Frank, o quelli della scolaretta di Hiroshima: che ne è dei resti loro e di altri milioni di innocenti morti per l’arroganza, la stupidità, lo strapotere di chi ordinò, ma anche di chi eseguì? Ancora una volta Primo Levi usa l’esortativo “Considerate” (“se questo è un uomo”), nel suo vero, straordinario significato etimologico:”…osservate gli astri per trarne auspici, prima di agire”, poi fermatevi, prima di perpetrare un delitto da cui la voatra coscienza non potrà mai essere ripulita (come le mani di Lady Macbeth…). Chissà, sarà stata la natura, madre e non matrigna, ad assorbire nel suo grembo la bambina di Pompei; sarà stata lei ad assumere in cielo le ceneri di Anna e a far svaporare nella luce la piccola di Hiroshima? Certo, non è stata la pietà umana di chi ordinava e di chi eseguiva gli ordini e forse nemmeno la pietà divina, giacché proprio Primo Levi ebbe a scrivere:”Se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”. Teniamo sempre vivo il ricordo di chi è morto per l’ingiustizia umana!

Roberta MaestrelliBerti
…ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.

framo
Solo i grandissimo come Primo Levi hanno il dono di dare voce pienamente al “bisogno umano di esprimere in poesia anche le cose più atroci” (nel video in cui l’autore si racconta), riuscendo a conservare un tono lucido ma comunque evocativo, senza cedere minimamente al pietismo o al nichilismo privo di ogni possibilità di appello. Quanta arte – restituzione alla vita, dunque – nell’immagine della fanciulla scarna che si è stretta convulsamente alla madre “quasi volesse ripenetrare in lei/ quando al meriggio il cielo si è fatto nero”, e in quella della “casa tranquilla dalle pareti robuste/ lieta (…) del (di lei) canto e (…) timido riso” all’avvicinarsi della morte. Una tragica verità testimoniale, un monito spirituale e civile profondo prendono qui parola.Traggono voce dalla forma di un bellissimo, toccante e “contorto calco di gesso” e risvegliano in noi “un’agonia senza fine”.

Antonella Bottari
Tutti i fanciulli del mondo.
Anna Frank, condannata all’esilio in una soffitta, per anni di silenziosa vita, privata della gioia di vivere, dei sentimenti e delle azioni che pomuovono la vita dell’adolescente, la quale è costretta a crearsi un mondo fatto di vibrazioni di angoscia, di risate soffocate, di difficoltà ambientale, di crescita. I rapporti conflittuali tra sé e gli altri, l’amore per la vita.
Lo stesso amore che a Pompei, all ‘inizio del primo secolo, spinge una fanciulla ad avvinghiarsi al corpo materno in cerca di una possibilità di rinascita, mentre le ceneri acri del vulcano le mozzano il fiato e la privavano del soffio vitale.
E tutti i bambini di Horoshima, smaterializzati in un angolo di cenere.
Quanto orrore nel mondo in nome di un ideale contorto ed aberrante!
Fatta salva l’eruzione del Vesuvio, tutto naturale e pertanto imprescindibile, tutto il resto è opera dell’uomo.
Un uomo, che perdendo il segno etico e la misura causa – effetto, si macchia di colpe efferate in nome dell’odio.
Tutto questo scrive Levi con ritmo incalzante e rammemora di se stesso e della vita nei campi di sterminio. Sei milioni di Ebrei lo hanno sperimentato sulla loro pelle, sulla loro dignità calpestata, sulla loro vita annientata.
E chi non morì nei campi della barbarie, dell’infame crudeltà, non resse, come il Nostro, che per esser vivo dovette scegliere di porre fine ai suoi giorni.
Ma prima di andarsene lasciò in noi vibrante testimonianza, monito intransigente della coscienza; nessuno mai dimentichi.

Marco Capecchi
“A molti individui o popoli può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico . Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come infezione latente; ma quando il dogma inespresso diventa premessa allora, al termine della catena sta il lager”. Primo Levi.

Paolo Parrini
Come raccontare una morte, come entrarne dentro e farla vivere in eterno nel ricordo di chi legge e si domanda perché e con dolore accetta il lato bestiale dell’uomo, la mano che uccide e tortura. Solo la morte della bambina di Pompei in fondo , può essere letta con dolorosa accettazione di un destino vile e tragico.In fondo ella muore per un capriccio della natura cui rimedio non c’è e se ci squassa il petto il pensarla calco di gesso abbracciato alla madre defunta insieme a lei, almeno non vi è la violenza umana da sopportare. Ma come accettare il destino di Anna Frank che muore senza aver assaporato quasi la vita, come non commuoversi per la bambina divenuta luce ad Hiroshima. Qui è stato l’uomo ad uccidere l’altro uomo, con una efferatezza e una crudeltà inaccettabili.Tutti siamo l’umanità, tutti siamo colpevoli in quanto uomini di queste nefandezze inimmaginabili.Alle nostre coscienze il prenderne atto e provare ad amare , a fare del bene almeno nelle nostre possibilità, in questa breve fugace e spesso atroce esistenza.

Maria Grazia Ferraris
Primo Levi colto, sobrio, lucido, non appariscente, spregiudicato, poeta, ebreo di nascita, chimico di formazione, estraneo alle scelte religiose tradizionali, è stato considerato in genere poeta dilettante, e a lungo relegato solo nell’ambito pur nobile ma separato della testimonianza.”Uomo sono. Anch’io, ad intervalli regolari, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale. ”Il dramma della morte e della vita si ripresentano in eterno senza giustificazioni. La rievocazione storica emozionante di un dramma storico naturale, portatore di morte, l’eruzione del Vesuvio, una memoria calata nel calco di gesso, pietrificata anche nell’ultima angosciante ricerca affettiva d’aiuto, il convulso abbraccio materno nell’agonia che non cessa di comunicare lo sgomento: nondimeno una testimonianza visiva, tangibile, che alla sorella Anna Frank, secoli dopo dispersa cenere nel vento, per volontà dei suoi simili non toccò in sorte, viva solo della testimonianza straziata del suo diario, così come alla piccola sorella, totalmente innocente, solo ombra inquietante, di Hiroshima.Gli dei, impietosi, talvolta si distraggono: le nostre orgogliose ambizioni sono per loro affidate al vento, ai nostri potenti ottusi necessita una misura di umiltà e di amore, di pietà sia pure segnato dalla paura.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Leggendo la prima parte di questo brano poetico è inevitabile pensare a Leopardi. Si respira qui, infatti, il profumo della “Ginestra”, l’amara consapevolezza che in ogni istante una vita innocente può essere spazzata via dal sussulto di uno “sterminator Vesevo”. Ma la bambina di Pompei è anche Silvia che allieta del suo canto le stanze della casa e come Silvia, all’apparir del vero, misera, perisce. Ma se la morte della fanciulla di Pompei è crudele e incomprensibile, ancor più inaccettabile appare la morte di Anna Frank o quella della piccola scolara di Hiroshima condannate non dalla imprevedibile crudeltà di un cataclisma naturale, ma da inaccettabili decisioni umane! Dopo l’accorato appello finale ai potenti della terra Levi ci riporta al punto di partenza, a quella crudeltà della Natura che per quanto terribile è la sola che noi possiamo in qualche modo accettare, in quanto ineluttabile.

Giancarlo Giancarli
La crudeltà dell’uomo supera la crudele indifferenza della natura: Levi si ricollega idealmente alla leopardiana “Ginestra” come punto di partenza per confrontare il triste destino di tre fanciulle morte anzitempo, e per rivolgere un’accorata implorazione “ai potenti della terra” che con tanta indifferenza decidono del destino delle genti. Nella fanciulla di Pompei riecheggia l’allegria di Silvia di cui condivide il triste destino, ma della fanciulla d’Olanda, come di quella d’Hiroshima, non resta nemmeno il foscoliano “cenere muto” con cui la madre dolente può conversare cercando di alleviare il suo dolore. Tra letteratura e vita la poesia bella e straziata di chi ha vissuto l’orrore e forse non è riuscito mai a perdonarsi del tutto di essere stato non tra i “sommersi” ma tra i “salvati”.

Giulia
Tre bambine innocenti come esempio della crudeltà dell’essere umano e dell’indifferenza della natura. Un appello disperato affinché l’uomo sia un uomo.

Yumiko Nakajima
Ho letto sulle poesie di Primo Levi e soprappongo le tragedie di Olocausto a quelle delle città danneggiate dalla bomba atomica. Ora, in agosto, è il proprio momento di ripensare le tragedie di Hiroshima e Nagasaki e recentemente ho consultato sulla storia e sui danni dalla bomba atomica. Anche penso che noi dobbiamo pensarci di abbandonare le crudeli armi nucleari”.

tristan51
Come con acutezza ha scritto Franco Fortini commentando “Shemà” e la sua epigrafica presenza a inizio di “Se questo è un uomo”: “Le poesie di Primo Levi stanno a tutta la sua opera di prosatore come Shemà sta a Se questo è un uomo, un grido di apertura che si vieta quello finale. Sono parole di preludio e vogliono dire: ‘ascoltate, queste note vengono dalla nostra metà non raziocinabile’. Si spengono subito e comincia il discorso implacabile della prosa e della ragione. Ma leggendo quest’ultimo non dimenticate mai la nota stridula, inspiegabile e irragionevole come l’esistenza che ha preceduto il suo inizio”.

Arianna Capirossi
La poesia di Levi fotografa l’eterna innocenza e purezza infantili ciclicamente macchiate da catastrofi. Ma alla catastrofe naturale di Pompei, che apre il componimento, il poeta associa poi due catastrofi stolidamente volute dall’uomo: l’Olocausto, Hiroshima. È un monito a ricordare, un grido di speranza rivendicata per i più giovani, un serio invito ad avere rispetto dell’altro e del futuro dell’uomo. Le tragedie del passato vanno conosciute e ricordate, per rispetto delle vittime e della loro sofferenza, perché il loro sacrificio rimanga, permanga nella nostra memoria. “Tu rimani”, dice Levi alla bambina di Pompei; “Nulla rimane” di Anna Frank o della bambina di Hiroshima, ma proprio per questo vanno permanentemente ricordate e rievocate. Levi descrive le tragedie volute dall’uomo che si abbattono sui più deboli rimarcandone l’ingiustizia, così come, secoli prima, fece un altro poeta, che visse il tempo dei miti e della religione pagana: Lucrezio. A lui Levi sembra ispirarsi nel verso: “vittima sacrificata sull’altare della paura”. Lucrezio, nel primo libro del “De rerum natura”, raccontava la storia di Iphianassa: ella, vittima di un rito superstizioso approvato dal padre Agamennone, morì immolata sull’altare presso cui pensava di sposarsi; e, prima di morire, comprendendo l’inganno, fu immobilizzata dal terrore: “muta metu terram genibus summissa petebat”, muta per la paura, piegate le ginocchia, si accasciò a terra. È un’immagine di ingiustizia umana molto simile a quelle proposte da Levi, che ci invita a riflettere sui mali provocati dall’uomo. La poesia di Levi, come quella di Lucrezio, è strumento di conoscenza e miglioramento della condizione umana, e come tale è lucida ed essenziale.

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