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Firenze, 12 settembre 2022 – Ricordando che il 12 settembre 1981 moriva a Milano Eugenio Montale.

Montale oppone alla scelta radicale e potentemente rivoluzionaria di un Ungaretti alla ricerca di un paese e di parole innocenti un libro come Ossi di seppia: un libro che un critico, Pier Vincenzo Mengaldo, ha definito documento di “conservatorismo linguistico”, intendendo dire con questo un libro agli antipodi con la poesia di cui si fa portavoce Ungaretti: una poesia, quella degli Ossi, che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente, che intrattiene con quella tradizione linguistica su cui consapevolmente si innesta forti legami.

Potremmo affermare – semplificando e  addirittura ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che anche Ungaretti aveva scritto – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. Quello stesso Ungaretti si dimostra pronto poi, con Sentimento del Tempo, a rivedere, com’è noto, questa sua posizione. Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia, dichiara al contrario la sua derivazione, ammettendo la sua dipendenza di tipo storico-linguistico dalla poesia che lo ha immediatamente preceduto: il valore di contrasto e di superamento consentito, in vista dell’originalità, da una relazione con modelli preesistenti.

Siamo abituati a vedere la poesia di D’Annunzio come poesia di inizio Novecento e conclusione ottocentesca da un lato, e la poesia nuova di Ungaretti e di Montale dall’altro: in effetti senza la sperimentazione linguistica e formale di D’Annunzio gli Ossi di seppia non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica.  Ma Montale utilizza una sorta di continuità linguistica garantita dai suoi precedenti per effettuare il suo attraversamento critico, che lo porta ideologicamente al di là del conservatorismo linguistico di un libro come Ossi di seppia, che non a caso ad Ungaretti appariva come un libro attardato.

Un’altra dichiarazione di Montale, contenuta nella sua celebre Intervista immaginaria del 1946, vede il poeta ancora agli antipodi rispetto ad una concezione ungarettiana della poesia. Montale dichiara apertamente, qui, di non aver mai pensato ad “una lirica pura nel senso ch’essa ebbe poi da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli”.

Ed ecco, per questa via, che l’oscurità di certo Montale anteriore, coevo e venuto dopo, soprattutto del Montale delle Occasioni e della Bufera, si rivela un’oscurità diversa da quella di tipo orfico-simbolista a cui approderanno i poeti ermetici fiorentini, seguendo in questo più la lezione ungarettiana che non quella di Montale: una lezione, quest’ultima, situabile senz’altro su una linea di tradizione simbolista, ma non innervata sulla dorsale più immediatamente derivata da Mallarmé e dalla poesia pura.

Marco Marchi

Notizie dall’Amiata

Il fuoco d’artifizio del maltempo
sarà murmure d’arnie a tarda sera.
La stanza ha travature
tarlate ed un sentore di meloni
penetra dall’assito. Le fumate
morbide che risalgono una valle
d’elfi e di funghi fino al cono diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio –
e le gabbie coperte, il focolare
dove i marroni esplodono, le vene
di salnitro e di muffa sono il quadro
dove tra poco romperai. La vita
che t’affàbula è ancora troppo breve
se ti contiene! Schiude la tua icona
il fondo luminoso. Fuori piove.

***

E tu seguissi le fragili architetture
annerite dal tempo e dal carbone,
i cortili quadrati che hanno nel mezzo
il pozzo profondissimo; tu seguissi
il volo infagottato degli uccelli
notturni e in fondo al borro l’allucciolìo
della Galassia, la fascia d’ogni tormento.
Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro
è di chi va solitario e altro non vede
che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe.
Le stelle hanno trapunti troppo sottili,
l’occhio del campanile è fermo sulle due ore,
i rampicanti anch’essi sono un’ascesa
di tenebre ed il loro profumo duole amaro.
Ritorna domani più freddo, vento del nord,
spezza le antiche mani dell’arenaria,
sconvolgi i libri d’ore nei solai,
e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione
del senso che non dispera! Ritorna più forte
vento di settentrione che rendi care
le catene e suggelli le spore del possibile!
Son troppo strette le strade, gli asini neri
che zoccolano in fila dànno scintille,
dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio.
Oh il gocciolìo che scende a rilento
dalle casipole buie, il tempo fatto acqua,
il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento,
il vento che tarda, la morte, la morte che vive!

***

Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porscopini
s’abbeverano a un filo di pietà.

Eugenio Montale

(da Le occasioni)