VEDI I VIDEO “Lo sai, amore, che mi congedo in fretta” , Roberto Carifi legge da “Il gelo e la luce” , … e da “Nel ferro dei balocchi” , “Cos’è, creatura amata” , “Le cose non dimenticano”

Firenze, 16 aprile 2021 – Da Simone Weil a Jabès, la meditazione di Carifi saggista ha incontrato di necessità assenze, sradicamenti e disappartenze, mentre rimane per lui costantemente attivo un comune fondo culturale che vede ricorrere spesso Platone e neoplatonici, i sermoni di Meister Eckhart, le pagine di Nietzsche, Heidegger e Derrida. L’orizzonte in cui d’altronde la sua poesia almeno fino ad un certo momento si è mossa (prima dall’avvicinamento sempre più fagocitante al buddismo) è stato decisamente europeo (ed Europa è il titolo di una sua raccolta), con visibili predilezioni per quella parte della cultura germanica in cui discorso poetico e discorso filosofico quasi si sovrappongono e vicendevolmente si arricchiscono.

Sono panorami artistici e intellettuali di mutevolezze, incroci e ibridazioni, in cui ogni dislocazione è instabile e ventilata, in cui ogni contatto conosce solo le perentorie modalità del congiungimento e del commiato. E nella coltivazione di questo spaesamento dell’esserci campeggia senz’altro il Rilke lungamente frequentato anche in veste di traduttore, tramite un dialogo intorno ai confini del dicibile, laddove l’uomo incontra la mostruosità dell’Angelo («Ein jeder Engel ist schrecklich», Elegie duinesi, I, 7), mentre la parola poetica è quanto resta di un rispecchiamento inadempiuto, il tanto che ci è dato di consegnare all’Angelo, che dalla contingenza del dicibile umano eleva a quel «nessundove senza negazioni» (VIII, 17) che non pertiene ai mortali.

L’attenzione del critico accredita e conferma così le preoccupazioni principali del poeta, singolarmente attento a voci come quelle di Trakl e Celan, assidui frequentatori del deperimento e della morte, che tuttavia nella loro stessa debolezza garantiscono il perpetuarsi di un vertiginoso minimum vitale. Come anche per Jabès, per il pistoiese Carifi la parola è atto estremo, teso ai limiti dell’essere e del linguaggio, che prodigiosamente annuncia se stessa e la possibilità etico-estetica del dialogo, la paradossale efficienza del celaniano Atemkristall: un flatus vocis fattosi cristallo per fragilità ma anche per purezza, nitore che garantisce un disarmato baluardo contro il nulla, proprio perché si fonda sul riconoscimento e l’apertura nei confronti di tutto ciò che è altro.

I grandi schermi tornano ad accamparsi, a riverberare per via di luminescenze e tenebrose trasparenze le loro luci archetipiche e originarie. «Ora che il mondo interamente abitabile pensato da Hölderlin e Novalis – scrive Carifi – appare una lontana utopia e non c’è ritorno che non debba passare attraverso il dolore di un esodo senza fine, l’ora senza sorelle […] apre verso una comunità possibile, verso un linguaggio eticamente fondato nella disponibilità per ciò che è altro».

Marco Marchi

Lo sai, amore, che mi congedo in fretta

Lo sai, amore, che mi congedo in fretta,
che tocco terra con troppa leggerezza,
che ho un destino nelle tasche vuote
e un angelo spoglio che di sera
mi piange livido sul petto.
E passo sotto le mura di novembre
con un messaggio da portare
non so né a chi né dove,
scritto a singhiozzi come una preghiera,
e vo quasi fratello nella notte
guardando ombre sorvegliate,
certi lumini accesi
e l’occhio spento di anime perdute.

Roberto Carifi 

(da Amore d’autunno)

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