VEDI I VIDEO “A una madre” e “Il grano del sepolcro”“Ricordo di Rocco Scotellaro” di Mario Carbone (1962)Scotellaro oggi , “Ti rubarono a noi come una spiga”

Firenze, 19 aprile 2019 – Ricordando che a Tricarico, in provincia di Matera, il 19 aprile 1923 nasceva Rocco Scotellaro, e segnalando il bel libro di Nicola Coccia L’arse argille consolerai, un pregevole, godibilizzimo studio dedicato alla figura di Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze in cui molto di Scotellaro si parla e fotograficamente si documenta (Pisa, Edizioni ETS, Premio Carlo Levi 2018, 2° ediz. 2018).

Nell’opera poetica del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò.

Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza di vino» classicheggiante, da Alceo tradotto sub specie quasimodea.

Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» (La pioggia). E si ricordi la tarda Cena, scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Con lo scarpaio, con il fabbricatore, con il sarto, Scotellaro recupera una forma di conciliazione psicologica con se stesso e con il suo gruppo d’appartenenza come altrimenti, in una ben diversa ma paragonabile circostanza storica foriera di novità, drammi e inedite  possibilità di proiezione, Piero Jahier con sé e con gli alpini.

Sta di fatto che nella poesia di Scotellaro il «noi» aspira a diventare un istituto grammaticale resistentissimo, valido però per via di negazioni. Poeticamente la libertà del poeta è nel non potersi sentire sempre a casa, in famiglia, a un tavolo di cucina, parte di un insieme compatto, solidale ed antropologicamente individualizzabile.

«Profeta e apostolo di un risveglio contadino, voleva essere Rocco Scotellaro – notò suo tempo Vittorio Spinazzola –. Ma a trattenere questo empito c’era un’inquietudine invincibile, che lo respingeva dalla comunione attiva con gli altri nella solitudine frustrata dell’io». E ancora Spinazzola indicava nell’opera di Scotellaro, in versi e in prosa, «un punto di riferimento psicologicamente rivelatore nel ritorno assiduo dell’immagine paterna».

Il padre è un topos della poesia meridionale: basti pensare a Sinisgalli. Ma in Scotellaro, l’autore di E’ fatto giorno, Margherite e rosolacci, Contadini del Sud L’uva puttanella morto precocemente all’età di trent’anni il confronto con la figura paterna si dilata, assume rilevanza e significati su un più largo spettro nella misura in cui, nei più diversificati luoghi della sua scrittura, si parla di «fratelli» e «fratellastri», o si tiene scrupolosamente a distinguere tra «amici» e «fratelli» nell’impiego estensivo di un termine che rimanda alla vita affettiva: vita affettiva primaria e profonda, di tipo familiare e semplificatamente genitoriale, larica, cui anche l’ancestrale e mitologica figura materna di Francesca Armento inevitabilmente, tra i «doppi» che la poesia plasma e porta alla ribalta, partecipa.

Padri amati e freudianamente odiati, sempre traditi e uccisi, e madri altrettanto amate e altrettanto dubitate e protestate, che metteranno in crisi a livello di conoscenza culturalizzata e di rivendicabile utilità civile del fatto letterario il rapporto di Scotellaro con l’esercizio della poesia: la sua stessa generosa e promettente ambizione, come scrisse Montale, «a diventare un letterato con tutte le carte in regola».

Marco Marchi

A una madre

Come vuoi bene a una madre
che ti cresce nel pianto
sotto la ruota violenta della Singer
intenta ai corredi nuziali
e a rifinire le tomaie alte
delle donne contadine?

Mi sganciarono dalla tua gonna
pollastrello comprato alla sua chioccia.
Mi mandasti fuori nella strada
con la mia faccia.
La mia faccia lentigginosa ha il segno
delle tue voglie di gravida
e me le tengo in pegno.

Tu ora vorresti da me
amore che non ti so dare.
Siamo due inquilini nella casa
che ci teniamo in dispetto,
ti vedo sempre tesa
a rubarmi un po’ di affetto,
tu che a moine non mi hai avvezzato.

Una per sempre io ti ho benvoluta
quando venne l’altro figlio di papà:
nacque da un amore in fuga,
fu venduto a due sposi sterili
che facevano i contadini
in un paese vicino.
Allora alzasti per noi lo stesso letto
e ci chiamavi Rocco tutt’e due.

Il grano del sepolcro

E’ cigliato nello stipo il grano
del sepolcro per Gesù bendato.
Verrà giugno, morirà anche mia madre,
voglio portarle spighe spigolate
dentro il suo scialle sacro
che per altro non avrò toccato.
Allora la casa sarà la via che mi mantiene:
non morire, mamma mia, che ti vorrò più bene.

Rocco Scotellaro 

(da Tutte le poesie. 1940-1953, a cura di Franco Vitelli, Mondadori 2004)

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