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Firenze, 2 ottobre 2022 – Vale veramente la pena tornare a dedicare a Margherita Guidacci una delle nostre Notizie, dato che non sono stati molti i ricordi per così dire all’altezza della situazione che dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1992,  le sono stati tributati. Restano i risultati di un ampio e qualificato convegno di studi tenuto nel lontano 1999 tra Firenze e Scarperia con relativi atti, resta soprattutto la raccolta di tutta la sua opera in versi in un unico volume, a cura di Maura Del Serra (ambedue le pubblicazioni, atti e poesie, edite da Le Lettere).

Eppure nella poesia del secondo Novecento Margherita Guidacci ha senz’altro costituito una presenza di rilievo: una presenza appartata, deliberatamente solitaria, fieramente lontana dalle cronache e dalle mode, ma proprio attraverso queste forme di solitudine scelta – scambiate a torto da qualcuno per superbia – originale e storicamente efficiente.

Scriveva Emily Dickinson in una delle bellissime lettere a suo tempo tradotte dalla Guidacci: “Dipingerei un quadro capace di commuovere fino alle lacrime, se avessi la tela adatta, e la scena sarebbe la solitudine, e le figure solitudine, e in ogni luce, ogni ombra una solitudine. Potrei empire una sala di paesaggi così pieni di solitudine che gli uomini vi sosterebbero davanti a piangere, e poi si affretterebbero verso le loro case, grati di ritrovarvi un essere amato”.

Anche Margherita Guidacci ha conosciuto la solitudine, perfino l’incapacità a restituirne in parole e poetici oggetti d’arte la sua tragica morsa; ma ha conosciuto pure una solitudine generatrice di poesia. Alcuni dei suoi libri più belli, anzi, rimangono quelli all’insegna di un disagio patito sulla propria pelle, fattosi biologia dolorante: “Neurosuite”, soprattutto, del 1970, e “Il vuoto e le forme”, uscito sette anni dopo con la prefazione di Luigi Baldacci, critico insigne che con la Guidacci aveva condiviso un magistero accademico sensibile ai valori poetici come quello di Giuseppe De Robertis, lo storico lettore di Ungaretti.

Fin da allora la Guidacci si era imposta con una lirica controcorrente, di forte afflato religioso e sostanzialmente antiermetica. Una poesia di “significati in drammatico accostamento” e non di “magici suoni”; una poesia della chiarezza, da “tersi cristalli” anche se proveniente dall’oscurità dei conflitti, dalla crisi stessa di un’ispirazione nata sotto il segno della fede e delle speranze ad essa connesse.

A un certo punto dell’itinerario umano e artistico della Guidacci il negativo si era imposto, aveva avuto corso: drammaticamente. Basti citare, da Il vuoto e le forme, questo splendido sillogismo della consapevolezza, da cartesianesimo rovesciato o da incupito agostinismo degno della “Città di Dio”: “Non penso dunque sono e non amo / dunque sono e non spero non agisco e non sento. / Vuoto in fronte e alle spalle. Non sono dunque sono: / dunque sono tua figlia, mio disperato tempo”.

Poi, all’improvviso e trascinando nella risalita la poesia, la solitudine era stata annullata da un miracolo d’amore, e il contatto aveva subito prodotto parole, se l’essere umano toccato da Amore diventa solamente per questo, stando a Platone, poeta. Con le liriche di “Inno alla gioia”, in un poeta a rischio semmai di doversi proprio con l’amore smentire nei suoi esiti maggiori, l’esultanza trovava nel 1983 i suoi accenti: diventava inno protratto rivolto a quella gioia, inducendo a sperimentare fin dalla scelta del titolo di un canzoniere così prorompente, così pieno e certo di sé, la retorica di citazioni ritrovate negli altri. Sì:Inno alla gioia”, e non come un facile segnale culturalistico, ma come necessità, come sorgiva invenzione nonostante Schiller e Beethoven.

E ne nascevano versi come questi, irrefrenabili e tripudianti, fermi e gioiosi pure nel ricordare ciò che fu: “Il dolore / era piombo e pietra e mi chiudeva in me stessa. / Ogni giorno una nuova cerchia di mura, / un nuovo giro di catene. // Ma la gioia / mi dilata ora dal centro del cuore / fino agli orli vibranti del mio essere – / leggera come un fiore che apra i suoi petali… / No, più leggera. Io sono spazio e luce. / Sono il crocevia di liberi venti” (“Dal dolore alla gioia”).

Marco Marchi

Puro di cuore

Col tuo passo sicuro e tranquillo
penetri per i neri corridoi
fino alla cella dove sono rinchiusa,
ed esclami gioioso: «Dov’è l’oscurità
di cui tanto piangevi? Sei tutta illuminata».

Tu non sai che la luce che vedi
è quella che tu irraggi, essendo puro di cuore
e quando la tua visita è finita
essa ti segue, io resto
di nuovo spenta!

Margherita Guidacci  

(da Neurosuite, Neri Pozza 1970)