VEDI I VIDEO “Padre, se anche tu non fossi il mio” (dal film “Tris di donne e abiti nuziali” di Vincenzo Terracciano, 2009) , “Padre che muori tutti i giorni un poco” , “La trama delle lucciole ricordi” , “Svegliandomi il mattino…”

Firenze, 7 novembre 2018 – Dovendo idealmente allestire un’essenziale antologia della poesia italiana del Novecento, anche un’essenzialissima antologia ridotta a davvero numeratissime voci, io credo che il nome di Camillo Sbarbaro non potrebbe non rientrare nel progetto.

Una voce poetica singiolarmente alta che ha affidato a pochissime opere ed essenzialmente a un libro scritto e riscritto per tutta la vita come “Pianissimo”, apparso per la prima volta per le Edizioni della “Voce” nel 1914, la sua foscoliana possibilità di permanenza nel mondo e prima ancora la sua possibilità di definirsi ed esprimersi. Definirsi ed esprimersi a favore di tutti, “confessarsi” con le parole che non avremmo mai saputo dire, com’è appunto della vera poesia, e come si verifica esemplarmente in atto nelle due straordinarie poesie per il padre che torniamo ad offrire oggi all’attenzione dei lettori.

Un poeta ligure appartato, renitente ai protagonismi e mai in primo piano sulla scena letteraria (una celebre definizione firmata Eugenio Montale lo vuole un “estroso fanciullo”), ma senza il quale il Novecento mancherebbe di qualcosa: di qualcosa di autenticamente attendibile come voce rappresentativa di un tempo della nostra Storia.

Ricordando che il 31 ottobre scorso ricorreva l’anniversario della morte di Camillo Sbarbaro (Savona, 31 ottobre 1967).

Marco Marchi

Padre, se anche tu non fossi il mio

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

Padre che muori tutti i giorni un poco

Padre che muori tutti i giorni un poco,
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e dite non t’accorgi e non rimpiangi,
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto, il disprezzo c’hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino
sotto la rude scorza
l’istintiva poesia della tua anima,
il bene c’hai voluto alla tua madre,
alla sorella ingrata, a nostra madre
morta,
tutta la vita tua sacrificata,
e poi ti guardo così come sei,
io mi torco in silenzio le mie mani.



Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù,
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.



Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche attenzion ti faccio segno,
di quanto fui vigliacco verso te.
Benché il ricordo mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
inconfessato sempre sopra il cuore.



Io giovinetto imberbe, t’ho guardato
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva…

Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s’oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo,
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.



Un pensiero soltanto mi consola
di poterti guardar con occhi asciutti:
il ricordo che piccolo pensando
che come gli altri uomini dovevi
morir pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell’infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d’aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.



Se potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.


Camillo Sbarbaro 

(da “Pianissimo”, 1914)

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