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Firenze, 15 ottobre 2018 – Nella prima raccolta di Dario Bellezza Invettive e licenze c’è un verso che suona: “Sciagurato solo di me so parlare”. Il verso è elevabile a capsula interpretativa di una condizione psicologica di diversità che inevitabilmente si impone a contraddistinguere le prospettive di un modo di far poesia, nonché, per converso, a disautenticarlo nella sostanza stessa ogniqualvolta su quelle ragioni prendano il sopravvento facili volontarismi di reazione e, per così dire, di affrancamento liberatorio.

Che la limitatezza del campo poetabile e prima ancora vivibile risulti dolorosamente avvertita, sta ad attestarlo la maledizione sottesa ad apertura di verso. Di qui la tentazione irresistibile e quasi necessitata alla trasgressione, al proposito ampliante a sfondo morale e comunitario, allo sconfinamento autoimposto in senso programmatico e progettuale.

Questo in Dario Bellezza. Un verso di Sandro Penna, invece, nel riproporre da una prospettiva del tutto differente lo stesso problema o tema di fondo che dir si voglia, può esclamare: “Sempre fanciulli nelle mie poesie!”, e giustificarsi con disinvolta pacatezza, a nome ed in nome dell’io: “Ma io non so parlare d’altre cose”, per poi spostare gradatamente l’accento sui registri dell’aereo calembour infantilmente risentito e lucidamente disarmato, perfino nella battuta che taglia corto con ogni possibile replica e con ogni possibile interlocutore: “Le altre cose son tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere Pie”.

A lettura del testo ricomposta ed ultimata, a prevalere nel riconoscimento e nell’affermazione di analoghe riduzioni ed impossibilità non è né la spavalda, fiera e soddisfatta contentezza di chi l’ha fatta franca, né tantomeno l’angoscia di chi prima si indigna e poi cede immancabilmente all’autocommiserazione e alla tristezza: è il senso di “sospeso”, piuttosto, così tipico dei timbri penniani da far perfino illusoriamente  immaginare stampati, anche quando non lo sono, quei puntini che spesso suggellano, lasciandoli in realtà apertissimi, tanti suoi componimenti.

Si tratta di un effetto sapientemete preparato, altamente espressivo e connotante, che Penna si adopera di provocare nella sensibilità del lettore attraverso sfumature intonazionali e ambiguità metrico-espressive minime ma sempre folgoranti, pronte a siglare ognuna delle sue rastremate e suggestive scritture, a conferire loro la cifra di un’assoluta, radiosa riconoscibilità: partiture concentrate e calcolatissime cui corrisponde sul piano dei significati – in equilibrio costante tra senso e suono, miracolo e verità – una trasmissibile e compartecipata visione del mondo. Paradossi della poesia…

Marco Marchi

Un giorno che alla terra abbandonavo

Un giorno che alla terra abbandonavo
ogni calmo desio – e rispondeva calmo
il vento che dal mare risaliva
a noi del verde colle –
io nel sole un’umana figura
riguardavo dormire. Indi m’accorsi
che un vero iddio guardava quella forma.
Mi ritrassi in silenzio. Spaventato

fui nel dolce silenzio, azzurro mare.

Sandro Penna

(da “Tutte le poesie”, 1979)

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