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Firenze, 13 ottobre 2021 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896).

Nella sua ultima stagione Montale rinuncia perentoriamente ad una visione alta della poesia, ben oltre gli abbassamenti di registro e le scelte ideologicamente antiauliche della sua poesia delle origini: scelte in qualche modo corrette e ridiscusse, a ben vedere, a partire da un’opera come la raccolta venuta immediatamente dopo Ossi di seppia, Le occasioni.

C’è un primo Montale, che cronologicamente si estende fino a comprendere quello che rimane a mio avviso il suo libro più alto, La bufera e altro, e c’è un Montale venuto dopo, da Satura in poi diciamo, che compie scelte sì in linea di continuità con la sua visione negativa e probabilistica dell’esistenza, ma entra in questa sua nuova realtà costituita da un assurdo quotidiano registrabile e causticamente ironizzabile attraverso una sostanziale desublimazione del lavoro di scoperta affidato alla poesia e, in senso nuovamente mimetico e insieme parodico, attraverso una desublimazione integrale della propria immagine codificata di poeta.

Nelle poesie dell’ultimo Montale si ritrovano, com’è noto, le figure, i simboli, gli emblemi della grande poesia montaliana, ma ironizzati, parodicamente diminuiti anch’essi, ferialmente riportati alla ribalta della scrittura per essere dissacrati: il porcospino che suggellava la celebre Notizie dell’Amiata diventa ad esempio nella poesia A pianterreno un porcospino a cui piace la pasta al ragù. Oppure si pensi alle canoniche apparizioni angeliche che fungono da intermediarie tra il terrestre e il trascendente in molta poesia delle Occasioni, destinate a diventare nel Montale degli ultimi libri il piccolo «angelo nero», il «miniangelo spazzacamino» che si ripara nello scialle di una caldarrostaia.

Il Montale di libri come Quaderno di quattro anni e Altri versi giunge autocriticamente a corrompere, con la sua pronuncia diversamente rigorosa ed eticamente responsabile fino alle oltranze e ai paradossi nichilistici, una sua immagine già consegnata alla storia della poesia; fino a proporci, nella sua ultima ed ultimissima produzione, una sorta di radicale e irreparabile impossibilità della parola poetica a raggiungere la realtà: una integrale sfiducia in quegli «strumenti umani» della poesia – per usare il titolo di un poeta che al magistero di Montale deve molto, Vittorio Sereni – tanto da lui praticati e accreditati nel corso di una vita. Questo, anzi, probabilmente rappresenta l’estremo e più significativo messaggio che Montale poeta ci consegna: la parola si approssima all’oggetto, ma non giunge mai a toccarlo, a veramente comprenderlo, a decifrarlo, a offrire valide risposte alla ricerca di significato dell’esistenza, del destino dell’uomo e delle cose nel mondo.

Una totale, dichiarata sfiducia nello strumento poetico contraddetta però da Montale stesso, nel momento in cui anche in Satura e anche nei libri diarisitici successivi seguiti a Satura, Montale non ha esitato a rimanere un vero poeta, talvolta grande e grandissimo, pure nella fattispecie di un impegno scrittorio apparentemente svagato, dimesso e finanche dichiaratamente dimissionario, colloquialmente (ma ancora solo in apparenza, infacito di cultura e culturalismo come spesso si rivela) facile e giornaliero. Bastino a dimostrare questo felice paradosso i versi intensi e commossi tratti dagli Xenia di Satura che oggi presentiamo.

Marco Marchi

Dicono che la mia…

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.

Eugenio Montale

(da Xenia, in Satura, 1968)

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