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Firenze, 13 dicembre 2019 – Della maturità, una categoria di matrice psicologica, Pavese aveva fatto un mito, un traguardo da raggiungere; a tre parole (tratte però dal “King Lear” di Shakespeare, da un’opera per antonomasia) resta affidato quell’obiettivo e il significato persistente di un esempio: “Ripeness is all”, la maturità è tutto. Fu questo – com’è noto – il mito che costò all’uomo l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, la notte tra il 27 e il 28 agosto del 1950).

Ma fu questo il mito che alimentò, assieme e al di là delle ideologie professate, una produzione letteraria sistematicamente impostata all’insegna della conoscenza e della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile, del superamento e della crescita. “Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò”.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, nella raccolta poetica che segnò il suo debutto, “Lavorare stanca”, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze ma dure opposizioni, lacerazioni, contrasti, e tra essi città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia: una fenomenologia conflittuale già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella scissione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore.

Questa divaricazione e questi conflitti li ritroviamo in controluce, lievito ispirativo efficiente, nella bellissima poesia di oggi.

Marco Marchi

Gente che non capisce

Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.

Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.

Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l’erba, perché da trent’anni
l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.

Anche Gella vorrebbe restarsene sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.

Cesare Pavese

(da Lavorare stanca, 1936)

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