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Firenze, 10 marzo 2017 – Ricordando che ieri l’altro ricorreva l’anniversario della morte di Alfonso Gatto (Orbetello, 8 marzo 1976).

Spettò a Silvio Ramat curare qualche anno fa un molto atteso Tutte le poesie di Alfonso Gatto, un sostanzioso volume pubblicato negli «Oscar» di Mondadori che avrebbe senz’altro meritato, però,  la più solenne consacrazione di un «Meridiano»; un volume forse in grado, tuttavia, di rinverdire il ricordo del poeta presso la contemporaneità. Nonostante tutto, invece, Gatto resta ancora un poeta un po’ in disuso, da non esaltanti quotazioni nel mercato delle lettere, tra gli addetti ai lavori come tra il pubblico dei lettori.

Eppure Gatto, nella sua certa originalità di ispirazione e di percorso, è stato, nel Novecento in cui si inquadra la sua parabola di uomo e di artista, quasi tutto: da poeta ermetico-surreale, per intenderci, a poeta civile e resistenziale, nella cifra di Isola e Morto ai paesi (e magari delle poesie per bambini del Sigaro di fuoco e del Vaporetto) come in quella della Storia delle vittime.

Nemmeno tale disponibilità, nemmeno tale apertura, sembra tuttavia avergli fruttato una congrua presenza nella memoria. Perché? Probabilmente perché la sostanziale unitarietà della sua vena, al di là delle apparenze e di qualche sperpero, appare tutta giocata sul filo del «canto»: di quella facilità melica che ha fatto a suo tempo pensare al partenopeo Salvatore Di Giacomo (così Giuseppe De Robertis) e ha fatto rimpiangere per il salernitano Gatto un mancato poeta in dialetto.

Ma è proprio ne La storia delle vittime, laddove il dono innato di Gatto si presenta più esposto a rischi e per così dire messo alla prova (anche nella splendida, commossa e commovente A mio padre oggi proposta), e dove una continuità musicale pare subire per converso, di proposito, colluttazioni e forzature – da dirottamenti nell’effetto-prosa a veri e propri sconfinamenti in enfasi e retorica –, che la poesia si prepara ai suoi esiti maggiori: La forza degli occhi, Osteria flegrea, soprattutto le splendide Rime di viaggio per la terra dipinta del 1969 e le terminali, notevoli Desinenze, dove con magistrale e inintaccata confidenza canora prende corpo quel sottovalutato gioiello di autobiografia in versi che è Il guardiano del faro.

Da Isola a Desinenze, senza dismettere la cetra, per via melodica, come nel melodramma Vincenzo Bellini e Pietro Mascagni insegnano: anche (soprattutto) al cospetto dell’amore negato e del male, secondo gli esempi melodrammatici utilmente richiamabili di opere-capolavoro come Norma e Iris. È qui – propiziata dall’immagine larica di Erminia, la madre morta che cuce e rattoppa, e investita dall’ibrido e mitizzante spazio-tempo di una storia sterminatrice e sanguinaria – che la lirica di Gatto giunge, io credo, alle sue massime epifanie: alle maggiori possibilità definitorie di «autoritratto», volendo, di un poeta-pittore abitato dalla musica in tutte le sue gamme, da Petrarca a Palazzeschi, tra virtuosismi al quadrato e infantili «trallarallà».

Il padre, la madre, l’insindacabile chiamata della poesia, il cogente richiamo della Storia... Ed ecco il nuovo Orfeo a riflettere, a ‘ragionar cantando’ in magnifici versi come questi: «Dovrò perderti sempre, amore vano / – io mi dicevo –  vandalo di rose / perdute senza coglierle, un insano / destino questo giungere alle soglie / della musica, inerme al ventilare / dell’abito che fugge nella stanza / col suo fantasma di pudore» (Il guardiano del faro).

Marco Marchi

A mio padre

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
– Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

Alfonso Gatto

(da La storia delle vittime)