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Firenze, 14 gennaio 2021 «Tutto Dante – ha affermato con icastica efficacia Mario Luzi – è un dramma che cerca di ricomporsi in una suprema catarsi e in una raggiunta armonia». In questa prodigiosa, irresistibile attrazione, in questa coltivata e partecipata tensione è dato intravedere al lettore di Luzi che sia a conoscenza dell’intera sua opera poetica quella luce ritrovata, quel sorriso colto con Dante come un imprinting dell’esistente: un imprinting rintracciato e celebrato, grazie alla poesia, oltre l’oscuro affliggente, da selva dello smarrimento che nel Novecento e nell’incipiente Duemila si è fatto e si fa sgomento, da selva della «mortalità» e della Storia: oltre l’inferno stesso, e oltre le brucianti incarnazioni visibili dell’assurdo dei lager e delle residue speranze di umana sopravvivenza lì coltivabili, espresse proprio attraverso il ricordo a Dante in Se questo è un uomo di Primo Levi.

A Luzi il problema di un rapporto non soltanto suo personale, ma dell’intera poesia moderna con la poesia di Dante si è posto presto, chiarissimo, e non certo foriero di sole estraneità e distanze, di intangibilità: «Forse oggi – si legge in Dante, da mito a presenza – nessun poeta può nutrire l’illusione di risalire come Dante alla sintesi e tanto meno all’armonia delle sfere che tutto presagisce e tutto contiene. Nessuna guida che abbia già chiaro per sempre il rapporto tra il particolare e il disegno di insieme gli è mandata incontro. Più facilmente un testimone di iniquità o un maestro di dubbio. Così com’è, la nostra cultura non consente di più: essa apre molte ipotesi ma non chiude nessun cerchio né indica alcuna strada come sicura. E tuttavia – continua Luzi – la necessità di una poesia che ritenti la vita nella sua legittimità primaria all’interno del mondo e della sua lacerazione, non avendolo rimosso in una condanna o nella sua indifferenza e parli con voce di chi è dentro la prova e non l’ha né rifiutata né misconosciuta, è abbastanza per giustificare ancora il poeta e ancora iscrivere il destino della poesia nel destino del mondo».

«Dentro la prova», o come altrove Luzi dirà «da dentro il patema», facendo della poesia sublime di Dante come della propria, al di là delle distanze e delle differenze, un unico «tentativo di rimettere l’uomo di fronte a se stesso in questo perverso processo di disumanizzazione che è in corso». In un diverso ma condiviso percorso in crescita, ad indirizzo ascensionale, letificante, «salutare» e rassicurante, che è venuto spostando con naturale forza inverante l’opera di Luzi oltre l’insensatezza del «dramma» e dell’«enigma» di una propria dichiarata immagine di uomo ed artista alla ricerca, già è dato ravvisare preliminarmente il graduale concrescere mitografico-immaginativo della Commedia.

Un modello, quello della Commedia, impossibile da riattivare tout court nelle sue architetture e nei suoi ordini supremi, come pure nei suoi dominati livelli di lettura (dal letterale all’allegorico, dall’analogico al morale), per via di quei compatti riconoscimenti di quella «provedenza che governa il mondo» di cui parlava Dante a Cangrande. Ma un Dante moderno pure nel dominio dell’antipoematico, dell’instabile e dell’insicuro, «del frammentario e del discorde» come Luzi dice, perseguibile anche così come esempio sommo, indirizzo, conato e aspirazione: a tal punto una protratta e sensibile inchiesta del reale come quella che anche Luzi ha affidato agli strumenti della poesia porta a Dante, a una lezione di Dante ineludibile, profondamente attiva ed implicata negli esiti raggiunti, in essi decisiva e ravvisabile.

Marco Marchi

Da Purgatorio, canto VIII

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;

quand’io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.

Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: ’D’altro non calme’.

’Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;

e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ’l trapassar dentro è leggero. 

Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle; 

e vidi uscir de l’alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue. 

Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate. 

L’un poco sovra noi a star si venne,
e l’altro scese in l’opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.

Ben discernëa in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l’occhio si smarria,
come virtù ch’a troppo si confonda. 

Dante Alighieri

(da Purgatorio, canto VIII, vv. 1-36)

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