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Firenze, 14 settembre 2020 – Ricordando che il 14 settembre 1321 moriva a Ravenna Dante Alighieri.

«Tutto Dante – ha affermato con icastica efficacia Mario Luzi – è un dramma che cerca di ricomporsi in una suprema catarsi e in una raggiunta armonia». In questa prodigiosa, irresistibile attrazione, in questa coltivata e partecipata tensione è dato intravedere al lettore di Luzi che sia a conoscenza dell’intera sua opera poetica quella luce ritrovata, quel sorriso colto con Dante come un inprinting dell’esistente: un inprinting rintracciato e celebrato, grazie alla poesia, oltre l’oscuro affliggente, da selva dello smarrimento che nel Novecento e nell’incipiente Duemila si è fatto e si fa sgomento, da selva della «mortalità» e della Storia: oltre l’inferno stesso, e oltre le brucianti incarnazioni visibili dell’assurdo dei lager e delle residue speranze di umana sopravvivenza lì coltivabili, espresse proprio attraverso il ricordo a Dante in Se questo è un uomo di Primo Levi.

A Luzi il problema di un rapporto non soltanto suo personale, ma dell’intera poesia moderna con la poesia di Dante si è posto presto, chiarissimo, e non certo foriero di sole estraneità e distanze, di intangibilità: «Forse oggi – si legge in Dante, da mito a presenza – nessun poeta può nutrire l’illusione di risalire come Dante alla sintesi e tanto meno all’armonia delle sfere che tutto presagisce e tutto contiene. Nessuna guida che abbia già chiaro per sempre il rapporto tra il particolare e il disegno di insieme gli è mandata incontro. Più facilmente un testimone di iniquità o un maestro di dubbio. Così com’è, la nostra cultura non consente di più: essa apre molte ipotesi ma non chiude nessun cerchio né indica alcuna strada come sicura. E tuttavia – continua Luzi – la necessità di una poesia che ritenti la vita nella sua legittimità primaria all’interno del mondo e della sua lacerazione, non avendolo rimosso in una condanna o nella sua indifferenza e parli con voce di chi è dentro la prova e non l’ha né rifiutata né misconosciuta, è abbastanza per giustificare ancora il poeta e ancora iscrivere il destino della poesia nel destino del mondo».

«Dentro la prova», o come altrove Luzi dirà «da dentro il patema», facendo della poesia sublime di Dante come della propria, al di là delle distanze e delle differenze, un unico «tentativo di rimettere l’uomo di fronte a se stesso in questo perverso processo di disumanizzazione che è in corso». In un diverso ma condiviso percorso in crescita, ad indirizzo ascensionale, letificante, «salutare» e rassicurante, che è venuto spostando con naturale forza inverante l’opera di Luzi oltre l’insensatezza del «dramma» e dell’«enigma» di una propria dichiarata immagine di uomo ed artista alla ricerca, già è dato ravvisare preliminarmente il graduale concrescere mitografico-immaginativo della Commedia.

Un modello, quello della Commedia, impossibile da riattivare tout court nelle sue architetture e nei suoi ordini supremi, come pure nei suoi dominati livelli di lettura (dal letterale all’allegorico, dall’analogico al morale), per via di quei compatti riconoscimenti di quella «provedenza che governa il mondo» di cui parlava Dante a Cangrande. Ma un Dante moderno pure nel dominio dell’antipoematico, dell’instabile e dell’insicuro, «del frammentario e del discorde» come Luzi dice, perseguibile anche così come esempio sommo, indirizzo, conato e aspirazione: a tal punto una protratta e sensibile inchiesta del reale come quella che anche Luzi ha affidato agli strumenti della poesia porta a Dante, a una lezione di Dante ineludibile, profondamente attiva ed implicata negli esiti raggiunti, in essi decisiva e ravvisabile.

Marco Marchi

da Purgatorio, Canto VI

«Mantua…», e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

Dante Alighieri 

(Purgatorio, Canto VI, vv. 72-151)

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