VEDI I VIDEO “Meriggio” di Gabriele d’Annunzio , … e “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale letti da Roberto Herlitzka , “Meriggiare pallido e assorto” letto da Montale , “Il novilunio” di Gabriele d’Annunzio

Firenze, 8 maggio 2019 – Testi a fronte (e letture a fronte, volendo, per la voce dello stesso attore alle prese con autori diversi), affidando a questo confronto su tema meridiano un più generale confronto di poetiche e di linguaggi ad esse sottese.

Sta di fatto che senza la lezione linguistica e formale di Gabriele d’Annunzio (ma si pensi anche a Pascoli e allo stesso Carducci, parimenti conosciuti, assimilati e attraversati dal poeta venuto dopo) gli Ossi di seppia di Eugenio Montale (da cui il celeberrimo Meriggiare pallido e assorto, arretrabile per composizione al 1916, è tratto) non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Ma una continuità di tipo linguistico-formale non implica necessariamente una continuità di tipo ideologico. Anzi…

Proprio nel 1925, l’anno di pubblicazione di Ossi di seppia, sul periodico torinese «Il Baretti», Montale lucidamente sosteneva in un suo scritto, rivendicando al proprio operato consapevolezze: «Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che per rifar la gente». Sicure prese d’atto e sicure prese di distanza di tipo ideologico, queste, che consapevolmente fondano la pronuncia di Ossi di seppia. Nasce così la poesia scabra ed essenziale dell’uomo che non può andarsene «sicuro», del «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari», del «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo».

Un esempio probante di quanto suggerito potrà scaturire dal confronto testuale odierno, instaurabile sulla base di una occasione poetabile analoga come quella di una fruizione meridiana e sulla base di un codificato e per suo conto già straordinarimente innovativo linguaggio poetico come quello che al poeta di Alcyone va riconosciuto: un linguaggio che già modernamente fornisce a Montale, a ben vedere, perfino una serie di diversamente funzionalizzabili soluzioni fonosimboliche aspre («E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca, /del ginepro: io son nel fuco…») degne del suo prossimo, antieroico e a noi più consentaneo «meriggiare»: non  in faccia al mitico e letterariamente enfatizzabile Tirreno, ormai, ma tra i dimessi confini di un quotidiano e del tutto novecentesco orto ligure.

Marco Marchi 

Meriggio

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.

E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

Gabriele d’Annunzio

(da Alcyone, 1903)

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
s
chiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
s
piar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche. 

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
d
i cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
s
entire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale

(da Ossi di seppia, 1925)

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