VEDI I VIDEO “Il viaggio e il ritorno” secondo Carmelo Bene , “La sera di fiera”… , … e “La Chimera” ancora secondo Carmelo Bene , Scene da un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (2002) , “Poesia facile”

Firenze, 20 agosto 2019 – Ricordando che il 20 agosto 1885 nasceva a Marradi il poeta dei Canti Orfici Dino Campana.

Prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, Campana confessa una sua incapacità: “Io non so se…”. Ma è proprio da questa incapacità dichiarata e subito chiamata in campo, da questa condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore fattasi incipit sonoro, primo accordo della partitura lirica, che la modernità della sua poesia si emancipa.

L’invocazione di Campana per dirsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto ad ogni passo a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.

La poesia degli Orfici è poesia culturalizzata, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: «lineamenti fissi», potremmo dire, «stabili possessi» citando un celebre «osso breve» che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.

Quel Montale cantore della negazione della parola che «squadri da ogni lato» un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova in un avverbio dell’incertezza – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’attacco di una altro suo «osso breve» come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e musicale dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.

E’ un regime dell’incertezza, del probabilismo che niente risparmia, che tutto investe; e la veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’«altrove» e della «seconda nascita» di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia degli Orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia «notturno», espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati di afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera.

Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le stupende pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra, riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza a forme e prospettive del moderno: una modernità di inizi secolo in sintonia con le parallele, sbaraglianti scoperte della scienza culminate nell’opera di Sigmund Freud.

Marco Marchi

Il viaggio e il ritorno

Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitaria troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.

Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velarii della luce io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolo la mia pristina lampada instella il mio cuor vago di ricordi ancora. Volti, volti cui risero gli occhi a fior del sogno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno che inghirlandai di fervore: o fragili rime, o ghirlande d’amori notturni… Dal giardino una canzone si rompe in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo.

O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole! Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.

Dino Campana

(da Canti Orfici)

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