VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , “Dona eis requiem sempiternam” , “Libera animas”

Firenze, 12 ottobre 2021 – Ricordando che oggi Giacomo Trinci festeggia il suo sessantunesimo compleanno (Ràmini, Pistoia, 12 ottobre 1960).

Caro Giacomo, tutti noi attendevamo dopo Inter nos un tuo nuovo libro, e quel libro – un magnifico nuovo libro intitolato Transiti, edito da Luca Sossella, che a tutti consigliamo di conoscere – è arrivato!

Del bellissimo, coinvolgente Transiti, solo da qualche giorno pervenuto sul nostro tavolo di lavoro con le sue meraviglie da assaporare senza fretta, ci occuperemo in altra sede, parlandone e scrivendone come merita. Ma mi è capitato recentemente di rileggere la tua raccolta del 2006 Senza altro pensiero, e torno a dirti con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, “altrove” e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia che tu in ogni testo che scrivi onori.

Un canzoniere per la madre, Senza altro pensiero, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile Cella da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta culminato oggi in Transiti, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconobbe Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad Inter nos).

Quel che è venuto dopo – da Voci dal sottosuolo al tuo Pinocchio in versi, da Inter nos a Transiti – è disceso da lì. Ma è con Resto di me e con Senza altro pensiero, prima di qualsiasi successivo, progressivo libro di consuntivo e di rilancio del discorso, che i vincoli con le origini sono tornati a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto Cella già stupendamente registrava.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in Cella all’”ante-vita” e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini dell’Usignolo già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in Cella una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In Senza altro pensiero, come programmaticamente avverrà in Transiti (fino alla “rilettura”, fino all’esibita “riscrittura” in pubblico: si veda in particolare come un lied), la “cella” ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

A suo tempo Bianca Garavelli scrisse per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in Senza altro pensiero di modelli novecenteschi di “canzoniere alla madre”. Ma mancavano, a mio parere, i due riferimenti più utili per capire: la “mari fruta” di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei Versi livornesi di Giorgio Caproni.

Sì, atteniamoci ai poeti, ai poeti capaci – come oggi  nell’intensa prosa prefatoria a Transiti dici – di “incidere con delicata spietatezza” nel tentativo di salvare il reale e magari, con esso, qualche rintracciata verità di se stessi. “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, come in Pasolini, la tua protratta canzone da nido pascoliano potrà dire anche, alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: “suo figlio, il suo fidanzato”.

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete –

quella era la sua camera – vedete 
ogni giorno è da qui vive con me

da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso 
è in un secondo piano ed una porta

a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più 
io sorvegliavo da lontano il cuore

io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da Senza altro pensiero, Aragno 2006)

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