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Firenze, 25 aprile 2022 – Un «giardino incantato», dirà in un importante incontro di studio Alfonso Gatto, riferendosi all’ermetismo e alla sua testimoniabile partecipazione a quelle decisive vicende della poesia italiana. Ma fuori da quel giardino e da quegli incanti, da quell’«erba» magnificamente difesa dalle accuse in una lirica che vale da sola mille saggi e mille dibattiti (è la nota Fummo l’erba), quali le musiche cui accordarsi, quali gli accordi e prima ancora gli «sgorghi nel canto» (Inverno) da cui farsi tentare, da tentare?

In realtà l’inconsapevole mano rilkiana che sa di scrivere qualcosa di ignoto, qualcosa che il poeta sostanzialmente non è in grado di capire, non rinuncia nel melico Gatto – un poeta costantemente tentato dalla musica, abitato da essa –, a forme di coscienza inquadranti, a garanzie di qualità che implicano in lui, fin da altezze cronologiche antiche, da avvio di percorso e con tutta probabilità da input stesso del processo, una comunanza di destino allargata, perfino una pregressa «storia delle vittime» da rinvenire all’insegna della morte e delle possibilità di auscultazione del silenzio, in un’amorosa possibilità di interscambio e di recupero del canto ad essa connessa.

A questa storia comune, a questa sorte condivisa, drammaticamente umana e drammaticamente deperibile, il poeta immediatamente si annette, orientando il dono ricevuto per spartirlo, a patto di deludere quanti vorrebbero da lui e dalla sua poesia altri indirizzi, altri rigori, altri generi di coinvolgimento: altra, Gatto avrebbe detto, «cultura». E qui si siglano, oltre le divergenze da una linea montaliano-eliotiana, quelle da un Sinisgalli o da un Bodini, come pure da altri rappresentanti illustri, diciamo pure «senza sud», dell’ermetismo fiorentino, da Luzi a Bigongiari, a Parronchi.

Gatto, «morto ai paesi», non teme insomma di ritrovarsi festoso «bambino tutto suono». Quante sere, e non solo sere crepuscolari, nella poesia di Gatto! Un’ora topica, incerta, di trapasso, secondo le ricorrenze segnalate dalla critica, a partire da Foscolo e da Leopardi. È così che in Alfonso Gatto la sera aggetta tra prima e dopo, memoria e presentimento, sulla notte, la morte (come nella bipartizione perfetta di un verso di Vivi), come se la poesia e i suoi rivelanti e salvifici recuperi musicali dal silenzio, le sue musiche da resurrezione del vivente strappate all’invisibile potessero finalmente squarciare quel nero manto meridionale e universale che incombe, ridare colore e corporeità a vite troncate, condannate al senza suono, oltre che al senza senso e al senza amore, di vittime di una storia che procede e che immancabilmente riesce a sopraffarle.

Nasce qui un testo di Gatto giustamente famoso come Amore della vita, forte della musicale lapidarietà di un endecasillabo così isolato e così memorabile come «Tutto di noi gran tempo ebbe la morte», rilevato con icasticità soggettiva in apparenza degna di un autoritratto di Alfieri, ma pronunciato a nome di molti.

Un’unica storia e tante vittime che la poesia di Gatto svolge tra recitativi e cantabili anche quando non sembrerebbe, o meglio anche quando questa tensione a un «altro mondo» che in Gatto, come Luigi Baldacci ha dimostrato, viene allestendosi preminentemente per via musicale, questa confluenza nell’a-temporale e nell’a-sociologico della poesia, non si è ancora espressamente definita come un civile intento di poetica: come un proposito da moralità se non aggiunta rafforzata. Un proposito volto a ricollegarsi direttamente  alle tragiche contingenze di una cronaca e di una storia recente, un deliberato e dirimente obbiettivo della volontà fattosi opera: un plurale, internamente scandito ma unitario, racconto di vite.

Marco Marchi

25 Aprile

La chiusa angoscia delle notti, il pianto
delle mamme annerite sulla neve
accanto ai figli uccisi, l’ululato
nel vento, nelle tenebre, dei lupi
assediati con la propria strage,
la speranza che dentro ci svegliava
oltre l’orrore le parole udite
dalla bocca fermissima dei morti
“liberate l’Italia, Curiel vuole
essere avvolto nella sua bandiera”:
tutto quel giorno ruppe nella vita
con la piena del sangue, nell’azzurro
il rosso palpitò come una gola.
E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.

Alfonso Gatto

(da La storia delle vittime, 1966)

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